Curti: «Alcuni scatti sono diventati tra le migliori armi in mano ai pacifisti»
Durante la guerra civile spagnola, il 31 marzo 1937, alcuni aerei dell’Aviazione Legionaria italiana in appoggio alle truppe di Franco bombardarono la cittadina basca di Durango provocando circa 300 morti. L’episodio, che anticipò di qualche settimana il massacro di Guernica immortalato da Picasso, è considerato il primo bombardamento a tappeto della storia su una popolazione civile. Da quel momento le città sono diventate un obiettivo privilegiato in qualunque conflitto: colpirle significava compromettere o annientare la produzione industriale e di carburante del nemico (con relativa forza lavoro), ma ancor più fiaccare il morale e la resistenza della popolazione. Così da allora Varsavia, Rotterdam, Coventry, Milano, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, fino ai centri urbani di Vietnam, Iraq, Siria e oggi del Nagorno-Karabakh, sono diventati anelli di una lunga catena di sangue e macerie che non si è ancora spezzata. Naturalmente, una volta diffuse, le foto di quelle città sventrate assumevano una doppia valenza non priva di ambiguità: da una parte documentavano oggettivamente gli effetti della guerra sul campo, dall’altra costruivano, si direbbe oggi, una narrazione funzionale alla propaganda interna. Robert Capa, il più grande fotoreporter di guerra, avvertiva: «Se vuoi fotografare una guerra, devi decidere da che parte stare», come per esempio ci ricorda oggi il lavoro di Gabriele Micalizzi o di Franco Pagetti. Ma poi capitava che fossero le foto stesse a prendere strade impreviste. «È proprio il caso della iconica foto del miliziano spagnolo di Capa, che ai tempi dei bombardamenti americani su Baghdad era ancora quella preferita dai media, incapaci di trovare simboli migliori in quel conflitto già altamente tecnologico e quasi immateriale — racconta Denis Curti, curatore, critico e storico di fotografia che al tema ha dedicato il libro Ombre di guerra (Contrasto, 2011) —. Oppure dello scatto di Nick Ut che, al seguito di un reparto Usa in Vietnam, ritrasse la bambina nuda in fuga dal suo villaggio incenerito dal napalm. Quella foto, dopo mille dubbi e censure, fu pubblicata diventando l’arma più potente dei pacifisti». La fotografia può legare anche storie di guerra e attualità che parlano di identità. «Anni fa curai una mostra con fotografie tratte dagli Archivi Civici di Venezia che mostravano come durante la Prima guerra mondiale i veneziani cercassero di salvare con sacchi di sabbia e barriere più le chiese, i ponti e i monumenti, cioè la loro memoria, che non sé stessi — dice Denis Curti —. Penso per esempio alla recente esplosione di Beirut che, oltre al porto, ha distrutto completamente anche il museo che conservava la storia fotografica del Libano. Per fortuna qualcuno aveva pensato a digitalizzare le immagini, che si sono salvate grazie a server conservati in edifici lontani. Un lavoro lungimirante, in fondo non molto diverso da quello portato avanti da Banca Intesa con l’Archivio Publifoto».
La foto del miliziano spagnolo di Capa era ancora la preferita dai media ai tempi delle bombe Usa