Politica degli Stati nostalgici
Il ritorno al passato alimenta i nuovi nazionalismi. L’analisi di Campanella e Dassù
La «nostalgia» nasce in medicina. Fu un medico svizzero, Johannes Hofer, a coniare il termine nel 1699, fondendo insieme le parole di origine greca nostos, e cioè ritorno, e algos, dolore. Nella Dissertatio medica de nostalgia ne identificò la patologia osservando il comportamento dei soldati del suo paese che, dopo lunghe campagne all’estero, risultavano talvolta ossessionati da gravi forme di malinconia. Per esempio ascoltando un’antica canzone svizzera intonata durante la mungitura. Era una sorta di ninna nanna che faceva venire le lacrime agli occhi, ma anche perdere la concentrazione e talvolta perfino la salute. Al punto che l’esercito aveva vietato alle truppe di cantarla, a pena di morte.
Lo studio della nostalgia ha avuto poi una grande diffusione, ma limitata a scienze come la psicologia, l’antropologia e la sociologia. In un libro ora tradotto in Italia da Egea, Bocconi Editore — L’età della nostalgia — Edoardo Campanella e Marta Dassù tentano invece per la prima volta di farne una categoria della politica internazionale. E ci riescono. L'origine e le forme che individuano e analizzano nel «nazionalismo nostalgico» ci forniscono infatti «un concetto potente per comprendere le tendenze politiche in atto in tutto il mondo», come ha scritto Lawrence H. Summers.
Naturalmente lo spunto originario, e il caso al quale con più evidenza si può applicare questa categoria, è il movimento proBrexit; e infatti il libro è stato dapprima pubblicato in Inghilterra, col titolo Anglo-nostalgia. Ma quella che gli autori definiscono una vera e propria «epidemia di nostalgia» si è in verità diffusa in tutto il mondo, e alimenta oggi un numero sorprendente di esperimenti politici di successo. Trump per esempio. È fuori di dubbio che la sua campagna presidenziale del 2016 guardava al tempo, gli anni Cinquanta del Novecento, in cui l’egemonia statunitense era indiscussa. La frequenza dei termini again e back nei suoi slogan dicono tutto. Ma anche la Cina sta vivendo un’ondata di nostalgia politica: Xi Jinping tenta di restaurare il potere globale del Regno di mezzo, e per dimenticare il secolo della umiliazione (1849-1949) rinverdisce con la Via della Seta i fasti della dinastia Ming. L’appena dimessosi Shinzo Abe, a sua volta, ha tratto ispirazione per una lunga premiership in Giappone dalla restaurazione Meiji dell’Ottocento, il «governo illuminato» che rovesciò il dominio feudale dello shogunato e riuscì a modernizzare il Paese. Narendra Modi in India è anche lui un mercante di nostalgia: ha perfino insediato una commissione di esperti per provare che gli odierni hindi sono i legittimi discendenti degli abitanti originari del Paese, e dare così un fondamento etnico al suo programma che discrimina l’immigrazione musulmana. Erdogan è un altro fulgido esempio: ha messo in discussione il Trattato di Losanna del 1923 perché tolse alla moderna Turchia territori che erano dell’impero ottomano, e si è inserito nella crisi libica come se la Tripolitania fosse ancora turca, prima cioè che gli italiani la sottraessero alla Sublime Porta con la guerra del 1911. Per finire con Putin, il quale ha perfino riabilitato Stalin e ripristinato l’inno nazionale sovietico, e si è preso con la forza la Crimea sulla base del fatto che «fa parte della nostra storia comune e del nostro orgoglio».
Si potrebbe aggiungere che molti movimenti politici non al governo in Occidente, dalla Lega Nord ad Alternative für Deutschland, ricorrono alla nostalgia per dare una base al loro sovranismo. E perfino Macron, alla ricerca di una nuova grandeur francese, gioca a somigliare, anche fisicamente, a Napoleone.
Ma, come abbiamo detto, la Brexit è il caso di scuola. Nella campagna per uscire dalla Unione Europea si sono addirittura fusi due tipi diversi e quasi opposti di nostalgia. Quella per l’Impero, che i Brexiter sperano forse un po’ ingenuamente di replicare in forme nuove, con il progetto di Global Britain, che vedrebbe Londra recuperare un ruolo egemone basato sulla Anglosfera, i Paesi di lingua inglese, e su un rinnovato rapporto speciale con gli Stati Uniti. Un modo dunque di ridiventare grandi liberandosi del dominio franco-tedesco incarnato dall’Europa. Ma a fianco di questa ambizione neo-imperiale, coltivata soprattutto nella élite Oxbridge da cui Boris Johnson proviene, c’è anche un sentimento diverso, da Little England, di un elettorato popolare che non ha sogni di grandezza ma invece vuole semplicemente «riprendere il controllo» sulle proprie vite, e spera che un governo «nazionale» possa proteggerlo dagli effetti della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Nostalgia insomma di un mondo in cui «i passaporti erano blu, le facce erano bianche e la mappa era di un rosa imperiale».
Le opinioni pubbliche sembrano ormai spaccate quasi ovunque lungo questa linea divisoria: da un lato i somewheres, gente radicata in un luogo e legata a un lavoro, spesso meno istruita; e dall’altro gli anywheres, persone più indipendenti, urbanizzate, socialmente liberali. Il loro conflitto si gioca proprio sul richiamo, maggiore o minore, della nostalgia. E da esso può dipendere la sorte della democrazia rappresentativa nel XXI secolo.
La Brexit è il caso di scuola, con due nostalgie: per l’Impero, ma anche per la «Little England»
Putin ha riabilitato Stalin e ripristinato l’inno sovietico. Macron gioca a somigliare a Napoleone