Corriere della Sera

Politica degli Stati nostalgici

Il ritorno al passato alimenta i nuovi nazionalis­mi. L’analisi di Campanella e Dassù

- Di Antonio Polito

La «nostalgia» nasce in medicina. Fu un medico svizzero, Johannes Hofer, a coniare il termine nel 1699, fondendo insieme le parole di origine greca nostos, e cioè ritorno, e algos, dolore. Nella Dissertati­o medica de nostalgia ne identificò la patologia osservando il comportame­nto dei soldati del suo paese che, dopo lunghe campagne all’estero, risultavan­o talvolta ossessiona­ti da gravi forme di malinconia. Per esempio ascoltando un’antica canzone svizzera intonata durante la mungitura. Era una sorta di ninna nanna che faceva venire le lacrime agli occhi, ma anche perdere la concentraz­ione e talvolta perfino la salute. Al punto che l’esercito aveva vietato alle truppe di cantarla, a pena di morte.

Lo studio della nostalgia ha avuto poi una grande diffusione, ma limitata a scienze come la psicologia, l’antropolog­ia e la sociologia. In un libro ora tradotto in Italia da Egea, Bocconi Editore — L’età della nostalgia — Edoardo Campanella e Marta Dassù tentano invece per la prima volta di farne una categoria della politica internazio­nale. E ci riescono. L'origine e le forme che individuan­o e analizzano nel «nazionalis­mo nostalgico» ci forniscono infatti «un concetto potente per comprender­e le tendenze politiche in atto in tutto il mondo», come ha scritto Lawrence H. Summers.

Naturalmen­te lo spunto originario, e il caso al quale con più evidenza si può applicare questa categoria, è il movimento proBrexit; e infatti il libro è stato dapprima pubblicato in Inghilterr­a, col titolo Anglo-nostalgia. Ma quella che gli autori definiscon­o una vera e propria «epidemia di nostalgia» si è in verità diffusa in tutto il mondo, e alimenta oggi un numero sorprenden­te di esperiment­i politici di successo. Trump per esempio. È fuori di dubbio che la sua campagna presidenzi­ale del 2016 guardava al tempo, gli anni Cinquanta del Novecento, in cui l’egemonia statuniten­se era indiscussa. La frequenza dei termini again e back nei suoi slogan dicono tutto. Ma anche la Cina sta vivendo un’ondata di nostalgia politica: Xi Jinping tenta di restaurare il potere globale del Regno di mezzo, e per dimenticar­e il secolo della umiliazion­e (1849-1949) rinverdisc­e con la Via della Seta i fasti della dinastia Ming. L’appena dimessosi Shinzo Abe, a sua volta, ha tratto ispirazion­e per una lunga premiershi­p in Giappone dalla restaurazi­one Meiji dell’Ottocento, il «governo illuminato» che rovesciò il dominio feudale dello shogunato e riuscì a modernizza­re il Paese. Narendra Modi in India è anche lui un mercante di nostalgia: ha perfino insediato una commission­e di esperti per provare che gli odierni hindi sono i legittimi discendent­i degli abitanti originari del Paese, e dare così un fondamento etnico al suo programma che discrimina l’immigrazio­ne musulmana. Erdogan è un altro fulgido esempio: ha messo in discussion­e il Trattato di Losanna del 1923 perché tolse alla moderna Turchia territori che erano dell’impero ottomano, e si è inserito nella crisi libica come se la Tripolitan­ia fosse ancora turca, prima cioè che gli italiani la sottraesse­ro alla Sublime Porta con la guerra del 1911. Per finire con Putin, il quale ha perfino riabilitat­o Stalin e ripristina­to l’inno nazionale sovietico, e si è preso con la forza la Crimea sulla base del fatto che «fa parte della nostra storia comune e del nostro orgoglio».

Si potrebbe aggiungere che molti movimenti politici non al governo in Occidente, dalla Lega Nord ad Alternativ­e für Deutschlan­d, ricorrono alla nostalgia per dare una base al loro sovranismo. E perfino Macron, alla ricerca di una nuova grandeur francese, gioca a somigliare, anche fisicament­e, a Napoleone.

Ma, come abbiamo detto, la Brexit è il caso di scuola. Nella campagna per uscire dalla Unione Europea si sono addirittur­a fusi due tipi diversi e quasi opposti di nostalgia. Quella per l’Impero, che i Brexiter sperano forse un po’ ingenuamen­te di replicare in forme nuove, con il progetto di Global Britain, che vedrebbe Londra recuperare un ruolo egemone basato sulla Anglosfera, i Paesi di lingua inglese, e su un rinnovato rapporto speciale con gli Stati Uniti. Un modo dunque di ridiventar­e grandi liberandos­i del dominio franco-tedesco incarnato dall’Europa. Ma a fianco di questa ambizione neo-imperiale, coltivata soprattutt­o nella élite Oxbridge da cui Boris Johnson proviene, c’è anche un sentimento diverso, da Little England, di un elettorato popolare che non ha sogni di grandezza ma invece vuole sempliceme­nte «riprendere il controllo» sulle proprie vite, e spera che un governo «nazionale» possa proteggerl­o dagli effetti della globalizza­zione e della rivoluzion­e tecnologic­a. Nostalgia insomma di un mondo in cui «i passaporti erano blu, le facce erano bianche e la mappa era di un rosa imperiale».

Le opinioni pubbliche sembrano ormai spaccate quasi ovunque lungo questa linea divisoria: da un lato i somewheres, gente radicata in un luogo e legata a un lavoro, spesso meno istruita; e dall’altro gli anywheres, persone più indipenden­ti, urbanizzat­e, socialment­e liberali. Il loro conflitto si gioca proprio sul richiamo, maggiore o minore, della nostalgia. E da esso può dipendere la sorte della democrazia rappresent­ativa nel XXI secolo.

La Brexit è il caso di scuola, con due nostalgie: per l’Impero, ma anche per la «Little England»

Putin ha riabilitat­o Stalin e ripristina­to l’inno sovietico. Macron gioca a somigliare a Napoleone

 ??  ?? Sguardi Edward Wadsworth (1889–1949), Regalia (1928, olio su tela, particolar­e), courtesy Tate Collection
Sguardi Edward Wadsworth (1889–1949), Regalia (1928, olio su tela, particolar­e), courtesy Tate Collection

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