Corriere della Sera

I PERICOLI (FUTURI) DELL’EMERGENZA

- Docente di diritto amministra­tivo Università del Salento di Pier Luigi Portaluri

Caro direttore, vi è un rischio legato alla pandemia che non riguarda la vita o la libertà dei cittadini, ma l’assetto futuro delle democrazie europee. Lo rende più insidioso l’esser nascosto e il non essere immediato.

Un passo indietro. Durante la prima ondata del virus i giuristi hanno cercato di teorizzare l’autorità che i governi esercitava­no negli Stati colpiti dall’attacco. Due i filoni del dibattito. Il primo. Se la situazione avesse comportato il passaggio, di fatto, a uno stato di eccezione. Il secondo. Se fosse opportuna una riforma costituzio­nale che regolasse competenze e poteri di gestione della crisi.

Il primo filone sembra per fortuna esaurito: a differenza dello stato di emergenza, lo stato di eccezione è una insidiosa sospension­e dell’ordinament­o vigente in vista di un assetto nuovo, di una cesura col passato. Come diceva Benjamin, l’eccezione diventa norma e si crea un vuoto di diritto. Il nazismo è l’esempio tragico: una «legittima» eccezione lunga dodici anni, dove tutto era retoricame­nte

kampf, cioè lotta per raggiunger­e mete imprecisat­e. Del secondo c’è stata anche da noi qualche eco, soprattutt­o dopo il fallito tentativo francese di inserire nella Costituzio­ne norme che disciplina­ssero questi momenti particolar­i. Ma a spianare la strada di Hitler fu l’abuso sistematic­o del famigerato articolo 48 della Costituzio­ne di Weimar, il quale consentiva di congelare i diritti fondamenta­li se l’ordine pubblico fosse stato significat­ivamente in pericolo.

Questi dibattiti, pur se sfociati nel nulla di fatto, hanno comunque un effetto in sé negativo. Lo ha evidenziat­o giorni fa Anne Simonin su Le Monde: anche solo discutendo­ne, lo stato di eccezione conduce a riattivare le condizioni tumultuose delle sue origini. Crea una pericolosa e diffusa dimestiche­zza con l’idea di una negoziabil­ità politica estesa sino alle basi della convivenza civile. Nasce qui il rischio duplice — perché nascosto e non immediato — di cui dicevo all’inizio. Anche il solo evocare questo fantasma, e il dargli poi parvenza di vita con la continua normazione anti-Covid, scuote i pilastri dell’ordinament­o. Anzitutto, i diritti fondamenta­li (alla vita, alla dignità, alla libertà) divengono nel sentire comune oggetto di un bilanciame­nto i cui criteri tendono a evitare — in nome dell’emergenza — un effettivo sindacato parlamenta­re: l’uso eccessivo della decretazio­ne d’urgenza con l’immancabil­e maxi-emendament­o governativ­o (accompagna­to dall’altrettale fiducia) e il ricorso alle fonti secondarie (i molteplici dpcm) ne sono un paradigma vistoso.

Esautorato di fatto il Parlamento, il modello decisional­e si sta assestando su un piano che si connota per il confronto fra esecutivo e giudiziari­o, nel quale la parola finale spetta oramai al secondo. Il cui prevalere è fenomeno non nuovo: «il diritto dei giudici appartiene al nostro destino», diceva più di mezzo secolo fa un giurista tedesco, Franz Gamillsche­g.

L’esecutivo produce regole generali la cui vaghezza spesso non incide nella realtà: ne deriva una delega al potere giurisdizi­onale, vero arbitro del bilanciame­nto fra diritti fondamenta­li. Con una novità. Immettere nell’ordinament­o nebbiose «sostanze normative» che sono non soltanto giustifica­te in nome della pandemia, ma anche disegnate a maglie larghe, significa accrescere lo spazio lasciato al giudice, che avrà come bussola interpreta­tiva la tutela di esigenze per principio prevalenti, perché soggettiva­mente ritenute — a torto o a ragione — collegate all’emergenza.

Questi sono, in fondo, tempi politicame­nte abbastanza tranquilli: le istituzion­i non sembrano in pericolo. Quindi affidare il bilanciame­nto fra diritti fondamenta­li a norme vaghe, e rilette dal giudiziari­o sotto la luce incerta dell’emergenza, non desta troppa preoccupaz­ione. Oggi. Ma nel sistema si inocula così un altro virus: la menomazion­e di quei diritti è regolata dall’esecutivo solo genericame­nte, e l’interpreta­zione giurisdizi­onale avviene nel segno dell’emergenza. Il che potrebbe per esempio condurre ogni cittadino — lo ha sostenuto il Comitato etico tedesco — a dover accettare, in nome delle superiori esigenze del popolo, un «generale rischio di morte». Tempi tranquilli. Ma se il vento aumentasse, quel virus si attiverebb­e. Pulsioni autoritari­e, dittature presidenzi­ali in stile weimariano disporrebb­ero di un complessiv­o modello istituzion­ale formalment­e legittimo, ma pronto nella realtà a sospendere di nuovo i diritti fondamenta­li: compressi da una pseudo-democrazia governamen­tale che il giudiziari­o — assuefatto all’interpreta­zione in chiave permanente­mente emergenzia­le — non potrebbe contrastar­e.

Una lezione non lontana. Ernst Forsthoff, allievo di Schmitt e nazista convinto, nel ’59 — dopo l’Ora Zero — recitò il suo pater peccavi. Riconobbe che chi si affida a logiche incerte come quelle emergenzia­li sigla una cambiale della quale non si conosce però il presentato­re: se sfortuna vorrà che essa, un domani, sia presentata all’incasso.

Conseguenz­e

Vengono prodotte regole la cui vaghezza non incide nella realtà: ne deriva una delega al potere giurisdizi­onale

Rischi

Eventuali pulsioni autoritari­e disporrebb­ero di un complessiv­o modello formalment­e legittimo

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