I PERICOLI (FUTURI) DELL’EMERGENZA
Caro direttore, vi è un rischio legato alla pandemia che non riguarda la vita o la libertà dei cittadini, ma l’assetto futuro delle democrazie europee. Lo rende più insidioso l’esser nascosto e il non essere immediato.
Un passo indietro. Durante la prima ondata del virus i giuristi hanno cercato di teorizzare l’autorità che i governi esercitavano negli Stati colpiti dall’attacco. Due i filoni del dibattito. Il primo. Se la situazione avesse comportato il passaggio, di fatto, a uno stato di eccezione. Il secondo. Se fosse opportuna una riforma costituzionale che regolasse competenze e poteri di gestione della crisi.
Il primo filone sembra per fortuna esaurito: a differenza dello stato di emergenza, lo stato di eccezione è una insidiosa sospensione dell’ordinamento vigente in vista di un assetto nuovo, di una cesura col passato. Come diceva Benjamin, l’eccezione diventa norma e si crea un vuoto di diritto. Il nazismo è l’esempio tragico: una «legittima» eccezione lunga dodici anni, dove tutto era retoricamente
kampf, cioè lotta per raggiungere mete imprecisate. Del secondo c’è stata anche da noi qualche eco, soprattutto dopo il fallito tentativo francese di inserire nella Costituzione norme che disciplinassero questi momenti particolari. Ma a spianare la strada di Hitler fu l’abuso sistematico del famigerato articolo 48 della Costituzione di Weimar, il quale consentiva di congelare i diritti fondamentali se l’ordine pubblico fosse stato significativamente in pericolo.
Questi dibattiti, pur se sfociati nel nulla di fatto, hanno comunque un effetto in sé negativo. Lo ha evidenziato giorni fa Anne Simonin su Le Monde: anche solo discutendone, lo stato di eccezione conduce a riattivare le condizioni tumultuose delle sue origini. Crea una pericolosa e diffusa dimestichezza con l’idea di una negoziabilità politica estesa sino alle basi della convivenza civile. Nasce qui il rischio duplice — perché nascosto e non immediato — di cui dicevo all’inizio. Anche il solo evocare questo fantasma, e il dargli poi parvenza di vita con la continua normazione anti-Covid, scuote i pilastri dell’ordinamento. Anzitutto, i diritti fondamentali (alla vita, alla dignità, alla libertà) divengono nel sentire comune oggetto di un bilanciamento i cui criteri tendono a evitare — in nome dell’emergenza — un effettivo sindacato parlamentare: l’uso eccessivo della decretazione d’urgenza con l’immancabile maxi-emendamento governativo (accompagnato dall’altrettale fiducia) e il ricorso alle fonti secondarie (i molteplici dpcm) ne sono un paradigma vistoso.
Esautorato di fatto il Parlamento, il modello decisionale si sta assestando su un piano che si connota per il confronto fra esecutivo e giudiziario, nel quale la parola finale spetta oramai al secondo. Il cui prevalere è fenomeno non nuovo: «il diritto dei giudici appartiene al nostro destino», diceva più di mezzo secolo fa un giurista tedesco, Franz Gamillscheg.
L’esecutivo produce regole generali la cui vaghezza spesso non incide nella realtà: ne deriva una delega al potere giurisdizionale, vero arbitro del bilanciamento fra diritti fondamentali. Con una novità. Immettere nell’ordinamento nebbiose «sostanze normative» che sono non soltanto giustificate in nome della pandemia, ma anche disegnate a maglie larghe, significa accrescere lo spazio lasciato al giudice, che avrà come bussola interpretativa la tutela di esigenze per principio prevalenti, perché soggettivamente ritenute — a torto o a ragione — collegate all’emergenza.
Questi sono, in fondo, tempi politicamente abbastanza tranquilli: le istituzioni non sembrano in pericolo. Quindi affidare il bilanciamento fra diritti fondamentali a norme vaghe, e rilette dal giudiziario sotto la luce incerta dell’emergenza, non desta troppa preoccupazione. Oggi. Ma nel sistema si inocula così un altro virus: la menomazione di quei diritti è regolata dall’esecutivo solo genericamente, e l’interpretazione giurisdizionale avviene nel segno dell’emergenza. Il che potrebbe per esempio condurre ogni cittadino — lo ha sostenuto il Comitato etico tedesco — a dover accettare, in nome delle superiori esigenze del popolo, un «generale rischio di morte». Tempi tranquilli. Ma se il vento aumentasse, quel virus si attiverebbe. Pulsioni autoritarie, dittature presidenziali in stile weimariano disporrebbero di un complessivo modello istituzionale formalmente legittimo, ma pronto nella realtà a sospendere di nuovo i diritti fondamentali: compressi da una pseudo-democrazia governamentale che il giudiziario — assuefatto all’interpretazione in chiave permanentemente emergenziale — non potrebbe contrastare.
Una lezione non lontana. Ernst Forsthoff, allievo di Schmitt e nazista convinto, nel ’59 — dopo l’Ora Zero — recitò il suo pater peccavi. Riconobbe che chi si affida a logiche incerte come quelle emergenziali sigla una cambiale della quale non si conosce però il presentatore: se sfortuna vorrà che essa, un domani, sia presentata all’incasso.
Conseguenze
Vengono prodotte regole la cui vaghezza non incide nella realtà: ne deriva una delega al potere giurisdizionale
Rischi
Eventuali pulsioni autoritarie disporrebbero di un complessivo modello formalmente legittimo