Stella di solidarietà
Rebecca Bianchi, l’étoile dell’Opera di Roma: «Vado in Africa con papà che cura chi ha bisogno»
Anche se quando danza sulle punte sembra toccare il cielo, Rebecca Bianchi ha sempre amato i gesti più concreti e terreni. Così le è uscito spontaneo, una volta che si erano spenti — a causa dell’emergenza Covid — i sorrisi del palcoscenico, abbracciare quelli dei bambini del Kenya. Rebecca, classe 1990, nata a Parma e cresciuta a Casalmaggiore (Cremona), ha vissuto una carriera vertiginosa, arrivando allo status di étoile del Teatro dell’Opera di Roma, con la consacrazione giunta il 20 settembre 2017 da Eleonora Abbagnato. Ma non ha mai perso il contatto con le sue origini, tra le quali spunta pure l’Africa. Il padre di Rebecca, Gian Pietro Bianchi, è infatti un chirurgo da un anno e mezzo in pensione, che spende spesso il suo tempo a contatto con gli ultimi: vere e proprie missioni, le sue, talvolta pericolose, in Sierra Leone, Zaire, Somalia, Kenya, negli ospedali e nei villaggi, ovunque vi sia bisogno.
In un paio di questi viaggi Gian Pietro ha coinvolto la famiglia e anche Rebecca. «Era il 1994 — ricorda l’étoile — dunque ero molto piccola, ma nel villaggio di Tabaka, vicino al Lago Vittoria, sono tornata nel 2002: avevo ricordi meravigliosi, che volevo rinnovare». Così Rebecca è tornata nel suo «luogo del cuore», dove l’ospedale fondato 44 anni fa dai Padri Camilliani è cresciuto con le strumentazioni donate da medici di tutto il mondo. «Mio padre è un grande professionista e di professionisti questi Paesi hanno estremo bisogno: il vero eroe è lui, io sono soltanto venuta a trovarlo, perché ne sentivo la mancanza».
Si dice che l’animo artistico sia più sensibile di altri: e da Roma, dove vive con il marito Alessandro Rende, ballerino affermato con il quale ha saputo coniugare i tempi massacranti della danza e della famiglia, Rebecca è partita due giorni fa, portando con sé il figlio maggiore Emanuele e tante valigie. Dentro, l’étoile dell’Opera di Roma ha messo vestiti, giocattoli, occhiali. Semplicemente doni: «Ma non mi sento una volontaria, perché non ho né qualifiche né capacità. Tuttavia questi bambini ti regalano un sorriso dal nulla e sono sempre rimasta conquistata da questo particolare: sentivo che era giusto restituire qualcosa».
Se il padre Gian Pietro oggi è in pensione e dunque ha più tempo per i viaggi umanitari, Rebecca ha scelto di spendere un paio di settimane lontane dal palcoscenico e dal teatro, regalate dal blocco alle attività culturali, creando uno spazio nell’agenda solitamente affollata. «Quello che sta succedendo al nostro mondo — dice — , messo in ginocchio dal virus, è una stilettata al cuore: ho cercato di fare fruttare il mio tempo in questo modo, realizzando un viaggio, come mi capitava qualche anno fa, che in circostanze normali non avrei potuto fare». Una scelta resa ancora più nobile dal periodo storico: difficile viaggiare con il timore del virus; difficile farlo in un continente in cui il Covid sta colpendo meno duro rispetto all’Europa, ma in cui il sistema sanitario rischia il collasso con grande rapidità. «A Nairobi e nelle città grandi qualche caso c’è, ma in generale qui pochi possono permettersi l’ospedale — racconta Rebecca — e allora ci si cura, o si muore, a casa. Nei villaggi, più isolati e meno popolosi, i casi sono per fortuna rari».
Il richiamo è stato comunque forte e il fatto di avere voluto con sé Emanuele è una sorta di nuovo inizio. Come Gian Pietro aveva fatto con Rebecca tra gli anni Novanta e i Duemila, così Rebecca ha scelto di fare con suo figlio. Umiltà e umanità da étoile.