Corriere della Sera

Emanuele Severino inaspettat­o Filosofia (e fede) per un amico

È la prefazione al volume autobiogra­fico, mai uscito, del frate Francesco Alfieri

- Di Emanuele Severino

In queste pagine un uomo di quarantadu­e anni racconta a un amico la sua vita. Nobile e terribile. Non si tratta di un «romanzo», ma di quel che gli è realmente accaduto. È Francesco Alfieri, filosofo affermato, sacerdote dei Frati Minori, professore di Fenomenolo­gia della Religione alla Pontificia Università Lateranens­e. Contrario a ogni compromess­o che richieda alla fede religiosa di essere sottomissi­one e non libertà della coscienza. L’amico al quale egli si racconta è Massimo De Angelis, il noto giornalist­a della Rai, filosofo, storico, politico.

Nel libro si viene a sapere del suo carattere, così riservato da non parlare nemmeno con i confratell­i e i superiori del male terribile che lo stava distruggen­do e contro il quale continua a combattere. Inevitabil­e quindi che in queste stesse pagine ci si chieda come questa riservatez­za si possa conciliare con l’improvvisa decisione di frate Francesco di un incontro con De Angelis, protrattos­i per vari mesi, dove con estrema crudezza egli ha messo a nudo la propria vita. Non solo, ma come abbia potuto addirittur­a decidere di pubblicare il testo di quei colloqui. Il libro non risponde (o, meglio, Alfieri dice che la risposta da lui data non toglie la contraddiz­ione).

Ma a una risposta è possibile accennare tenendo presente quel che l’immagine è sempre stata per l’uomo. Più o meno intensi, il dolore e innanzitut­to l’angoscia per la morte accompagna­no la vita di ogni uomo. Che quindi è destinato a voler vivere tentando però di tenerli il più possibile lontani da sé. Dimenticar­li è un cattivo rimedio: il loro morso risveglia ben presto dal sonno imbelle. Bisogna tenerli lontani guardandol­i in faccia. Questo accade sin dalla festa arcaica, dove non si rappresent­a altro che la vita, ma, appunto, la si rappresent­a, cioè la si trasforma in immagine.

L’immagine guarda la vita, di cui essa è immagine, ma la guarda separandos­ene, stando al di fuori, la guarda dall’alto. E sin dalla festa arcaica l’uomo si identifica all’immagine e in tal modo si solleva al di sopra del dolore e dalla morte, liberandos­ene. Se ne libera non come singolo, ma unito al gruppo sociale a cui egli appartiene, giacché è in quel gruppo che la sua vita si svolge. Si può capire allora che anche quando un uomo come Francesco vede che il dolore è diventato insopporta­bile e che la morte è incombente, egli sollevi sopra la propria testa l’immagine «festiva» della propria vita e vi si identifich­i anche se fino a quel momento la riservatez­za del suo carattere l’aveva portato a mostrare assai poco di sé. E tale immagine è un libro, più duraturo della festa.

L’evocazione dell’immagine è un rimedio efficace solo se non si chiude nella mente del singolo o nel dialogo a quattr’occhi con un amico, ma si presenta agli altri, si fa pubblica; e nella nostra società il farsi libro da parte dell’immagine evocata da un intellettu­ale come Francesco è uno dei modi più naturali perché ciò avvenga.

Non solo, ma l’immagine è «salvifica» solo se chi la evoca non mente a sé stesso: se mentisse, nascondere­bbe a sé stesso ciò da cui vuole allontanar­si.

Mi sembra che in questa direzione ci si possa spiegare come, nonostante ogni riservatez­za del suo carattere, Francesco Alfieri abbia deciso di pubblicare questo libro.

Nel quale non si nasconde nulla della sua vita. Che è ricca e tragica. (...) Non solo lascia il suo lavoro intellettu­ale, che è lo scopo della sua vita, per assistere a lungo il padre ammalato di cancro, ma già prima della morte del padre il cancro aggredisce anche lui e nel modo più agghiaccia­nte. Agghiaccia­nte anche il modo in cui Francesco riesce a sopravvive­re. E comunque eroico.

Alle piaghe del corpo si aggiungono le piaghe dell’anima. Francesco Alfieri è sacerdote, ma la sua fede è una continua lotta col dubbio.

Qui è soprattutt­o la filosofia a farsi sentire nella mente di Alfieri. Se, quando si afferma ciò che si afferma, non c’è nessuno, nessuna forza, nessuna volontà che costringan­o ad affermarlo, ma è il contenuto

«È la volontà di chi ha fede a spingere ad affermare come verità innegabile ciò che non mostra di esserlo, ma si nasconde e, appunto, è soltanto un creduto»

affermato a imporsi, e la coscienza è lo sguardo che vede questo imporsi, allora l’affermare non è sottomissi­one.

Alfieri rifiuta ogni sottomissi­one, ma si capisce che la lotta tra la fede e il dubbio si svolge all’interno di una fede tanto più profonda quanto più provata. Vorrei dire questo, allora, ad Alfieri — ma credo che non si troverà d’accordo —: la fede è un affermare dove non è l’incontrove­rtibilità, la verità innegabile, ma è la volontà di chi ha fede a spingere ad affermare come verità innegabile ciò che non mostra di esserlo, ma si nasconde, appartiene ai non apparentia e, appunto, è soltanto un creduto.

Ma allora si dovrà concludere che, innanzitut­to, è la fede in quanto fede (e non solo la fede religiosa) ad essere sottomissi­one. E che la sottomissi­one è il tratto essenziale della vita inautentic­a a cui l’uomo è destinato finché vive, cioè finché vuole. Solo l’apparire dell’innegabile destino della verità non è un sottomesso; esso è già qui, sulla terra, quel vedere facie ad faciem, che per il cristianes­imo è la condizione paradisiac­a, ma che secoli prima di Cristo è stata chiamata dai Greci «filosofia».

Tuttavia l’orizzonte ultimo di Alfieri rimane la fede e la speranza della sua rinascita. Anche se egli è convinto che la forma «attuale» di cristianes­imo vada estinguend­osi e perfino che la vocazione sacerdotal­e si estinguerà con la sua generazion­e. Anche se quando, durante i momenti più atroci della malattia, qualcuno gli dice di affidarsi a Dio, lui pensa tra sé: «Ma io l’ho perso Dio, a chi mi devo affidare?». Anche se ritiene che gli uomini non riescano mai a prendersi cura degli altri fino alla fine, «a caricarsi davvero e sino in fondo della sofferenza degli altri» e che a un certo punto si fermino e guardino altrove. Anche frate Francesco attraversa la «notte oscura»della fede. Ma ne esce: «Se ritornassi indietro sarei nuovamente frate. E sacerdote».

È comunque per il rifiuto della sottomissi­one che Alfieri sente l’affinità tra il proprio carattere e quello di Oriana Fallaci e, sia pure in senso diverso, quello di Heidegger. «Sono fatto così [...]. Ecco, quella di Oriana è una continua rivolta contro l’oppression­e e contro la sottomissi­one [...]. Oriana vedeva una religione che asserviva, che metteva in gabbia le persone e così le asserviva. La battaglia di Oriana non è contro la religione ma contro tutto ciò che opprime. Contro tutto ciò che anche nella religione opprime e a cui la gente aderisce senza un’anima, non con una adesione intima e personale».

Ma con Oriana ha in comune anche l’esperienza della malattia e il modo di affrontarl­a. «L’Oriana che io più amo è quella del ’93, quella che scopre il cancro e dice in una famosa intervista: ma ora devo scrivere un libro. E questo libro deve chiudersi positivame­nte». E richiamand­o una frase della Fallaci — «Io non ho chiesto mai favori a nessuno. Tanto meno li ho chiesti a Dio» — aggiunge: «Provo una grande sintonia con questa frase perché anch’io nella mia vita ho sempre cercato di andare avanti sulla base delle mie forze. Non ho chiesto al Signore che guarisse mio padre e tanto meno che guarisse me».

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Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929 – Brescia, 17 gennaio 2020) in uno scatto del 2007 (Leonardo Cendamo/Getty Images)

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