Paura nella terra degli Inuit canadesi Primi contagi: lockdown tra i ghiacci
Il virus Covid-19 è arrivato fino alle più remote e ghiacciate terre del pianeta. Il governo del Nunavut, patria degli Inuit canadesi che si estende a Nord del 60° Parallelo su un territorio grande quanto l’intera Europa Occidentale, ha decretato il «lockdown» totale per due settimane. La pandemia si è fatta strada fin lassù, in una regione popolata da appena 36.000 abitanti, finora risparmiati dal Coronavirus grazie alla severa quarantena imposta all’ingresso: il primo caso è stato registrato il 6 novembre, venerdì erano tre, ieri erano confermati 26 contagiati. Quindi, chiuse scuole e ristoranti. «Pensate a questo momento come ad un interruttore di circuito», ha esortato il premier del governo locale Joe Savikataaq, «È un’opportunità per resettare la nostra vita. Nessuno è al di sopra delle regole. Voglio essere chiaro: non fate visite, non socializzate e, a meno che non sia assolutamente necessario, restate al sicuro in casa». L’allerta è altissima. Anche se i casi sono per ora concentrati in due villaggi — Arviat e Rankin Inlet, al confine con il Manitoba e ad oltre 1.100 km dalla capitale, Iqaluit — l’epidemia può diffondersi ancor più rapidamente tra le comunità dei nativi Inuit che sono molto vulnerabili alle malattie, hanno alti tassi di tubercolosi e hanno poche strutture sanitarie.
L’Antartide è risparmiato dal coronavirus, per ora. Affinché la situazione rimanga tale le misure di sicurezza sono estremamente rigorose: per esempio gli esperti francesi, racconta Le Monde, si sono sottoposti a un periodo di semiisolamento in Francia, poi hanno preso un charter da Parigi a Hobart, in Tasmania, dove sono rimasti in quarantena per 14 giorni in camere di albergo singole, dalle quali potevano uscire per al massimo 30 minuti al giorno da trascorrere in cortile, a turno, sorvegliati dai militari; pasti lasciati davanti alla porta, obbligo di attendere due minuti prima di ritirarli; finestre totalmente chiuse. Dopo cinque test
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negativi in tre settimane, gli scienziati francesi si sono uniti a quelli italiani e hanno preso i voli finali per l’Antartide, verso la base francese Dumont-d’Urville e quella italo-francese Concordia. «Una volta arrivati abbiamo ripreso le relazioni sociali normali, stringendo le mani dei colleghi ai quali stavamo dando il cambio e togliendoci le mascherine», dice uno di loro. Se il coronavirus entrasse in Antartide, con le condizioni estreme e le limitate risorse mediche, le conseguenze per i circa duemila esperti di tutto il mondo (di solito sono cinquemila) sarebbero catastrofiche.