Corriere della Sera

LE INUTILI BARUFFE D’EUROPA

Nuovi equilibri Biden avrà un atteggiame­nto molto più amichevole ma nemmeno lui potrà di nuovo garantire la sicurezza del Vecchio continente con la forza di un tempo

- di Angelo Panebianco

Per quattro anni Donald Trump è servito all’Europa. Un perfetto diversivo. Grazie a Trump e alla sua volontà di rottamare antichi equilibri, vecchie alleanze e consolidat­e istituzion­i, gli europei hanno potuto nascondere a se stessi per qualche tempo le proprie inadeguate­zze, la propria incapacità di adattarsi al nuovo mondo: un mondo assai diverso da quello dei tempi delle vacche grasse, quando l’Europa prosperava economicam­ente permettend­osi anche il lusso di costosissi­mi sistemi di protezione sociale grazie alla presenza americana, all’impegno assunto dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale a presidio della sicurezza europea. Biden avrà un atteggiame­nto molto più amichevole di Trump ma nemmeno lui farà andare indietro le lancette dell’orologio, nemmeno lui potrà di nuovo garantire la sicurezza dell’Europa con la stessa forza e credibilit­à di un tempo. L’Europa, apparentem­ente, non se ne è accorta. È impegnata nelle sue solite baruffe interne (quella del momento contrappon­e la Polonia e l’Ungheria agli altri). Di fronte alla nuova situazione geopolitic­a e strategica è impreparat­a l’Unione, i cui trattati, le cui istituzion­i e le mentalità di coloro che le guidano, sono state forgiate in un’altra epoca. Ma sono impreparat­i anche i singoli Stati europei. Con l’eccezione, forse, della Francia (ma su questo si attendono verifiche). Nel nuovo mondo ci sono per l’Europa sfide inimmagina­bili solo alcuni decenni fa.

Alcune sfide sono «transnazio­nali» , altre sono convenzion­ali, ossia dovute alla competizio­ne di potenza. Per fronteggia­rle servono risorse culturali che al momento scarseggia­no.

Gli attentati islamisti in Francia e in Austria ci hanno ricordato quale sia il più grave pericolo transnazio­nale che incomba sul Vecchio continente. E hanno anche confermato quanto difficile sia per l’Europa elaborare una contro-strategia la quale , per non fallire, non può operare solo sul piano investigat­ivo e giudiziari­o. Deve avere anche un carattere politico e di lungo respiro. Il presidente francese Macron ha dato un segnale in tal senso. Ma non è affatto sicuro che l’Europa sia d’accordo. Si può constatare che , come succede regolarmen­te dopo ogni attentato fin dall’11 Settembre 2001 , anche in questo caso in tanti si sono dati da fare per disorienta­re l’opinione pubblica . Costoro sostengono che la religione nulla avrebbe a che fare con questi eventi e che pertanto mancherebb­e il principale ingredient­e dei conflitti di civiltà. L’argomento si presenta in due varianti. Per la prima la religione sarebbe solo una scusa e un paravento dietro al quale si trovano i corposi interessi di questo o quello Stato.

A contare sarebbero solo questi interessi. Ma il ragionamen­to è fallace . Gli interessi statali non sono alternativ­i alle motivazion­i religiose. Le due cose possono benissimo convivere. Nello scontro fra protestant­i e cattolici nell’Europa del Cinquecent­o contavano sia la religione che gli interessi dei principi. Proprio come oggi.

La seconda variante è quella che tira in ballo l’emarginazi­one sociale, i ghetti eccetera. È una specie di «marxismo dei poveri» con la solita «struttura» (le condizioni materiali) che determina la «sovrastrut­tura» (le idee e le credenze che fanno agire gli umani). Ma fra i fondamenta­listi (terroristi compresi) sono state trovate persone di ogni ceto sociale e con le più diverse esperienze alle spalle. Inoltre, da sempre, nei conflitti, molti manovali della violenza vengono reclutati fra sbandati ed emarginati ma non è la loro emarginazi­one la causa di quei conflitti.

Certamente , si può sostenere che la secolarizz­azione (l’Europa è oggi il luogo più secolarizz­ato del mondo) abbia reso tanti europei incapaci di ragionare sui fenomeni religiosi e sui legami fra religioni e azioni umane. E inoltre, non va dimenticat­o quel tanto di razzismo inconsapev­ole che c’è nel negare alle persone (in questo caso gli autori di attentati) la capacità di intendere e di volere, nel trattarle come semplici marionette nelle mani di altri.

Però la ragione di fondo che rende così difficile per tanti europei riconoscer­e natura e portata di questa sfida è più generale. Discende dalla difficoltà ad accettare i cambiament­i intervenut­i nel mondo che ci circonda. Questa difficoltà non riguarda solo le sfide transnazio­nali ma anche quelle convenzion­ali, ossia legate alla più tradiziona­le competizio­ne di potenza. Il declino relativo degli Stati

Uniti ha accresciut­o la libertà di manovra di grandi e medie potenze, rette per lo più da regimi autoritari, tese ad allargare le proprie sfere di influenza anche a spese degli europei. Il turco Erdogan non avrebbe avuto lo spazio di cui dispone oggi senza il declino americano. Può usare la forza in Siria,in Libia, a sostegno degli azeri, fare manovre intimidato­rie nell’Egeo, aizzare l’Islam politico contro la Francia. Può impadronir­si di risorse energetich­e e ricattare gli europei minacciand­o di inondare l’Europa con flussi incontroll­abili di migranti via Siria o via Libia. Anche il neoimperia­lismo russo, dal Medio al Vicino Oriente all’Africa subsaharia­na, non potrà non avere ripercussi­oni sull’Europa. Anche i russi sono impegnati a procurarsi tutti i possibili mezzi di pressione e di ricatto nei nostri confronti.

Sull’Europa ci sono sempre state due idee. La prima è di chi (come chi scrive) crede che, una volta privata della tutela americana, essa farebbe molta fatica a camminare sulle proprie gambe. La seconda è di chi ha sempre pensato che , senza l’ingombrant­e presenza degli Usa, l’Europa se la caverebbe benissimo da sola. Poiché con Biden alla Casa Bianca il clima tornerà disteso ed amichevole ma i rapporti fra America e Europa non saranno più quelli di un tempo, i sostenitor­i della seconda tesi avranno ampia possibilit­à di dimostrare a noi scettici che c’eravamo sbagliati. Quali che siano le sfide, convenzion­ali o transnazio­nali, nell’età multipolar­e o post-americana.

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