Un diluvio di miliardi tra sprechi e clientele
La ricostruzione, gli appetiti dei sindaci e delle industrie
Ma come li hanno spesi quei trentadue miliardi di euro? Alla domanda della Corte dei Conti, in realtà, non ha mai potuto rispondere nessuno. Troppi pasticci burocratici. Troppi soldi spariti, più ancora a Napoli e dintorni che in Irpinia. Troppe complicità con la camorra che fino al diluvio di soldi del 1980, per Nicola Gratteri, «vivacchiava tra mercati ortofrutticoli e paranze». Troppi arbitrati discutibili guidati da troppi giudici con un’idea «elastica» del conflitto di interessi. Troppe clientele da accontentare.
Il più sfacciato fu l’allora sindaco di Castellabate: «Ci accusano di sciacallaggio sostenendo che non abbiamo avuto danni dal sisma. Facciamo conto che ciò sia vero, per comodità di discorso. Ma mi dica lei chi ci avrebbe salvato dall’accusa di omissione di atti d’ufficio per non aver fatto ottenere al paese quello che la legge gli concede». Fu così, battendo cassa allo Stato per danni secondari se non fasulli, che l’area del cratere del 1980 si allargò a dismisura. Erano 36, all’inizio, i comuni gravemente danneggiati a cavallo fra Irpinia e Basilicata: pochi mesi e divennero 687. Per un totale di 474.583 case da ristrutturare o ricostruire. E chi non prendeva i soldi andava al Tar. Per non dire di vari sindaci-progettisti. Come uno di Laviano che figurò firmatario di 83 progetti, direttore dei lavori di 9 cantieri e collaudatore di 49 opere finite. Meno dell’assessore-geometra di Guardia dei Lombardi che di progetti ne accumulò 380.
Ancora più contestate però furono le aree industriali. Su tutte quella di Balvano. Perché mai erano andati a costruire quell’area a 1.000 metri d’altezza spendendo un sacco di soldi? Ai quesiti dell’inchiesta parlamentare il sindaco rispose: «Ce lo ha chiesto la Ferrero. Dicono che lassù le merendine lievitano meglio». La commissione di Oscar Luigi Scalfaro arricciò il naso. I fatti, però, hanno dato ragione alla società di Alba. Che ha appena distribuito un premio ai dipendenti perfino in questo 2020 infausto, continua ad assumere e ha deciso di raddoppiare gli investimenti. E così vanno bene l’Hitachi elettronica, lo stabilimento Fca di Melfi e il suo indotto e altre eccellenze qua e là.
Sul resto, però… «L’attuale occupazione nelle aziende delle aree terremotate lucane è di oltre 2.000 lavoratori diretti, con aumento sul 2019, e circa 1.400 indiretti, contro una previsione complessiva di 6.000 di posti di lavoro finanziati con contributi pari al
Ma come li hanno spesi quei 32 miliardi di euro? Alla domanda della Corte dei Conti non ha mai potuto rispondere nessuno
Battendo cassa allo Stato per danni secondari se non fasulli, l’area del cratere si allargò da 36 a 687 comuni
La Cgil: i previsti oltre 15.000 posti di lavoro non hanno mai superato i 6.000 in tutto il cratere, e oggi siamo ben sotto i 4.000
121% delle spese ipotizzate. Delle 107 aziende finanziate ne rimangono una cinquantina in attività — dice un dossier di ieri di Pietro Simonetti, storico studioso del tema —. Al momento circa 100 capannoni, o strutture similari, di cui una ventina finanziati da Legge 219/81 ed i restanti con le leggi 488/92 e 64/74, sono inutilizzate, preda dei ladri di rame e di impiantistica». Non va meglio, stando a un dossier della Cgil di Avellino, l’Irpinia: «I previsti oltre 15.000 posti di lavoro, non hanno mai superato i 6.000 in tutto il cratere, ed oggi siamo ben sotto i 4.000». Già alla fine della commissione Scalfaro il quadro era netto: «A Morra De Sanctis (Avellino) 11 assunti rispetto ai 638 previsti. A Isca Pantanelle (Potenza) 2 assunti su 287… ».
Difficile dar torto al saggio Leghisti e sudisti di Isaia Sales che denunciava gli industriali nordici che usufruirono delle sovvenzioni solo «al fine di trasferire meramente impianti produttivi localizzati altrove» o addirittura per portare a casa «nelle aree di provenienza macchinari e attrezzature finanziati per lo sviluppo delle aree danneggiate». Così andò. Tanto da ispirare al sociologo Salvatore Casillo dell’Università di Salerno una indimenticabile mostra su «tutti gli stabilimenti pagati e mai aperti».
Quattro decenni sono passati. Ma per Stefano Ventura, autore di Storia di una ricostruzione (Rubbettino) «servirà ancora tempo, probabilmente, per mettere a confronto una memoria diffusa (…) alternativa rispetto a una narrazione pubblica e mediatica forte che ha parlato spesso e solo di “Irpiniagate” e di scandali. Il terremoto ha creato delle faglie più subdole e invisibili, quelle del rancore tra chi è stato capace di approfittare della cuccagna e chi non ci è riuscito, tra chi prima non aveva nulla e adesso ha e tra chi prima aveva e poi ha perso quasi tutto».