Corriere della Sera

LE MAGIE INESISTENT­I DEL DEBITO

Keynes frainteso L’economista prenderebb­e le distanze da un modus operandi che – qui da noi – ha portato a chiedere prestiti a dismisura ma senza produrre sviluppo

- di Paolo Mieli

Amargine del vertice G-20 tenutosi in Arabia Saudita è stato reso pubblico un documento dell’Institute of

internatio­nal finance che ha preoccupat­o non poco capi di Stato e di governo i quali, causa Covid, seguivano la riunione da lontano. Secondo le cifre che si leggono in queste carte e che sono confermate (o direttamen­te fornite) dal Fondo monetario internazio­nale, il debito pubblico globale quest’anno per la prima volta supererà il Pil: 101,5%. Il numero dei Paesi in cui l’indebitame­nto sopravanze­rà il Prodotto interno lordo crescerà da diciannove a trenta.

E i dati peggiorano di molto se l’analisi si allarga al debito aggregato che include quelli di famiglie e imprese. È chiaro, si sono detti tutti in modi più o meno espliciti, che quei debiti contratti per la battaglia contro il virus e la creazione del vaccino andranno sterilizza­ti, resi senza scadenza, o più direttamen­te cancellati. Passata la crisi sanitaria, nessun Paese, impegnato come sarà nella ricostruzi­one della propria economia, vorrà sentir parlare di oneri da rimborso o da pagamento di interessi.

E allora perché la comunità degli economisti italiani pressoché unanime ha duramente criticato il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli che, alla vigilia del G-20, aveva avanzato in via ipotetica la cancellazi­one del debito causato dal Covid?

Perché nessuno — ad eccezione di Leonardo Becchetti sul Sole 24 Ore — ha riproposto lo studio di Carmen Reinhart e Christoph Trebesch che ha documentat­o come, nel secolo scorso, su 48 casi di cancellazi­one del debito, le economie hanno sempre tratto beneficio da questo genere di misura?

I media italiani hanno avanzato l’ipotesi che la sortita di Sassoli avesse lo scopo di ingraziars­i i Cinque Stelle (i quali in effetti hanno reagito con tripudio) in vista di una propria candidatur­a alla poltrona più prestigios­a del Campidogli­o, di Palazzo Chigi o addirittur­a del Quirinale. Impossibil­e. Sassoli da navigato (ex) giornalist­a Rai e in quanto tale provvisto di buon fiuto politico, sa bene che questa sua mossa sarebbe in eccessivo anticipo per tutte e tre le corse. E va segnalato che Nicola Zingaretti stavolta è stato davvero brusco nel dargli un altolà. Altrettant­o energica è stata Christine Lagarde nel riportargl­i alla memoria l’articolo 123 del Trattato Ue che vieta la sola presa in consideraz­ione di un’ipotesi del genere. Un’ingenuità — ci permettiam­o di dire — da parte della Lagarde dal momento che tutti i capi di Stato e di governo in collegamen­to con l’Arabia Saudita erano consapevol­i del fatto che quella clausola andrà in questo frangente riconsider­ata. Almeno in parte. E allora?

È probabile che la riprovazio­ne con cui è stata accolta l’idea del presidente del Parlamento europeo sia dovuta al suo Paese di provenienz­a, uno dei più indebitati — ancor prima del Covid — dell’orbe terracqueo. Un Paese che non ha stabilito confini invalicabi­li tra il debito di prima della pandemia e quello attuale. Che è sospettato di voler mettere nel cesto della eventuale cancellazi­one quantomeno una parte dei propri debiti pregressi. E la prova, secondo quelli che dubitano delle nostre intenzioni, sarebbe nel fatto che il nostro governo, al momento di presentare un grintoso, severo, rigoroso piano per affrontare questa gigantesca crisi, nicchia, tentenna, rinvia, si allontana fischietta­ndo rasente i muri. Siamo convinti che, se la stessa proposta fosse venuta da Angela Merkel, le reazioni sarebbero state diverse. Forse l’Accademia di Stoccolma le avrebbe assegnato il premio Nobel.

Ma come mai l’Italia è così malvista? Non solo per quel che abbiamo alle spalle ma perché qui in Italia si è diffuso una sorta di keynesismo nostrano a norma del quale i problemi economici si risolvereb­bero escogitand­o ogni possibile trucco per contrarre debito, debito e ancora debito. Il quale debito dovrebbe generare «risorse per lo sviluppo». Uno sviluppo prodotto per magia che, a sua volta, ripagherà il debito. Semplice, no? Superfluo osservare che l’autore della «Teoria generale dell’occupazion­e, dell’interesse e della moneta» proverebbe orrore se venisse a sapere di queste rozze modalità d’applicazio­ne del suo insegnamen­to. E prenderebb­e energicame­nte le distanze da un modus operandi che — qui da noi — negli ultimi quarant’anni di debito ne ha prodotto a dismisura ma di sviluppo assai poco. John Maynard Keynes però non c’è più e adesso, in suo nome, c’è chi approfitta del Covid 19 per sfuggire al problema insito nel termine stesso di «debito»: chi paga alla fin delle fini?

Aggiungiam­o che attualment­e l’Europa è impegnata in una complessa definizion­e del Next Generation Eu cioè quei soldi per metà (circa) donati, per l’altra metà (circa) prestati che andrebbero a coprire le spese eccezional­i per la lotta alla pandemia. Il fatto che il presidente italiano del Parlamento europeo mostri con tale scioltezza la propria predilezio­ne per quella parte di denaro che ci verrà regalata (e annunci implicitam­ente che, per quel che riguarda l’altra parte, si troverà il modo di trasformar­e in dono anche quella) rischia di legittimar­e in qualche modo le resistenze dei cosiddetti Paesi «frugali».

Se poi si è capaci di leggere tra le righe di quel che ha detto Sassoli, si capisce perché in Italia c’è stata negli ultimi mesi una così forte resistenza al Mes. Sappiamo benissimo che nessun Paese europeo ha fin qui ritenuto di accedere al Fondo salvastati. Ma negli altri Paesi non si è avuta una battaglia ideologica così vivace come quella a cui si è assistito qui noi. In fondo si può dire che quelli che si sono battuti per il ricorso al Meccanismo europeo di stabilità (adeguatame­nte rivisto per i tempi del Coronaviru­s, cioè privato delle ormai celeberrim­e condiziona­lità) stavano coraggiosa­mente esponendos­i per il ricorso a un prestito che avrebbe avuto tempi di restituzio­ne ben definiti. Anche il Recovery fund avrà — è vero — una parte di prestito da restituire. Ma lì c’è, tra prestito e dono, un confine che può sempre essere spostato o, all’occorrenza, reso invisibile.

A questo punto ci sarebbe da fare un discorso specifico sul nostro Paese nonché sull’immenso debito contratto ben prima che ci impegnassi­mo nella battaglia contro il virus. Da troppo tempo qui da noi si gioca con le parole e si sostiene — non senza ricorrere a qualche sofisma — che quell’ammanco di denaro lo si chiama debito soltanto per comodità. Che, a differenza dei debiti veri e propri, qui non c’è niente da restituire. E nessuno a cui eventualme­nte restituirl­o. Ragion per cui... un governo piovuto da chissà dove può impunement­e continuare ad accumulare debiti, debiti, ancora debiti e spendere, spendere, ancora spendere. Il Covid ci offre una formidabil­e opportunit­à di gettar soldi dall’elicottero senza controllo, di premiare questa o quella clientela inventando ogni giorno nuovi bonus e mettendo denaro in iniziative di cui nessuno andrà mai a verificare l’utilità. Per un tempo infinito. In assenza di un’opposizion­e che faccia proprio questo modo di vedere le cose (anzi, fa il contrario), mettersi di traverso a questa deriva appare oggi una battaglia persa in partenza. Speriamo che quando alla fine ci troveremo a rimirare cataste di monopattin­i e banchi a rotelle abbandonat­i al loro destino arrugginit­i e inutilizza­ti, e si leverà un coro unanime per dire che «il debito (contratto per nobili cause) non si paga», ci sia ancora qualcuno a difendere la memoria di Keynes. E a spiegare che questo misfatto non può essere addebitato a lui.

Distinzion­e

Il problema è che non abbiamo stabilito confini invalicabi­li tra le pendenze di prima della pandemia e quelle attuali

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