Smith primo maestro «Impressionato da Sinner»
L’americano inaugurò l’albo d’oro delle Atp Finals a Tokyo 1970 «Per i giovani oggi sono una scarpa, Federer il migliore di sempre»
Per la generazione dei millennials è la scarpa da ginnastica più famosa del pianeta, per gli appassionati di tennis meno giovani una leggenda che orbita intorno a pochi titoli, ma buoni. Stan Smith, californiano di Pasadena, 74 anni, è stato un sublime interprete dell’arte dimenticata del doppio (con il partner Bob Lutz) e un eccellente portatore sano di gesti bianchi (due titoli Slam). Ha conosciuto Jack Kramer, l’inventore del circuito moderno, ha fatto coppia con Arthur Ashe, ha battuto Kodes (Us Open ‘71) e
Nastase (Wimbledon ‘72), ha alzato lob dall’era di Laver e Rosewall che sono atterrati nel campo di Connors e Vilas. Cinquant’anni fa, a Tokyo nel ‘70, ha vinto il primo Master della storia. All’indomani del successo di Daniil Medvedev nelle Atp Finals (pronte a traslocare a Torino), mister Smith in diretta Zoom dalla sua casa in Carolina del Sud è l’interlocutore ideale per parlare appassionatamente di tennis.
Sono passati dieci lustri: qual è il ricordo più vivido del Master di Tokyo, Stan?
«Un’enorme palestra gelata che aveva ospitato la ginnastica ai Giochi ‘64 e un campo di plastica che va letteralmente in pezzi mentre gioco con Rod Laver davanti a 10 mila giapponesi. Il 14 dicembre ‘70, giorno del mio compleanno, affronto Rosewall nel match decisivo (la formula era a round robin) e ricevo la cartolina di chiamata alle armi! Tanta roba tutta insieme per un ragazzo di 24 anni...».
Ha conservato dei cimeli?
«Una bottiglia di Pepsi, che sponsorizzava il torneo: il primo premio era di 15 mila dollari, una cifra più che decente per l’epoca».
Chi è stato il più forte, tra i suoi avversari?
«Penso che siamo tutti d’accordo nel dire che, per conquistare due volte tutti e quattro gli Slam nello stesso anno solare, devi essere un po’ speciale. La risposta, quindi, è facile: Laver».
C’è unanimità anche sul nome del più grande di sempre, Federer, secondo lei?
«Oh sì. In una mia classifica di ogni tempo dopo Roger metto Rod, Djokovic e Nadal a pari merito, Sampras e Borg».
Arthur Ashe, benché non abbia stravinto, è stato un personaggio rivoluzionario. Ci racconta il suo Ashe?
«Molto volentieri. Arthur era un gran tennista e una persona, se possibile, ancora migliore. Il padre Arthur senior gli aveva insegnato il rispetto e lui era incapace di giudicare gli altri. Aveva carisma, empatia. A Houston non gli permisero di entrare in spogliatoio in quanto nero: lui si cambiò nel corridoio e giocò, senza un lamento. Non era accettato ma accettava le diversità».
Diversità tipo le follie di quel pazzo di Nastase?
«Ilie in campo faceva diventare matto anche me, poi si andava a bere una birra. Arthur marciò a Washington contro le ingiustizie, studiò perché sapeva che l’istruzione era vitale, soprattutto per lui. Un leader nato».
Il cambiamento più grande rispetto ai suoi tempi sono le racchette, mister Smith?
«Insieme al business che ruota intorno al tennis e alla televisione, senza dubbio. Con la racchetta di legno il gioco è per forza diverso, meno potente e più lento: se non colpivi la pallina al centro perfetto dell’ovale, erano guai. Io credo che l’unico che sarebbe altrettanto vincente con il legno sia Federer. Roger gioca come giocavamo noi. Pulito».
Ha sentito parlare di un certo Jannik Sinner, the italian sensation?
«Certo che sì, l’ho anche visto in azione alla tv: a New York e Parigi. Ha un tennis a tutto campo che mi ha impressionato e un buon atteggiamento. Ora che ha vinto il primo titolo Atp e che l’Italia fa il tifo per lui, determinante sarà come gestisce il successo e le attenzioni. La testa, nel tennis, è tutto. Ma non sarà una meteora: su questo mi sento di sbilanciarmi».
Se potesse tornare indietro, rifarebbe tutto? Anche boicottare Wimbledon ‘73?
«Sì. A quel tempo pensavo che fosse la cosa giusta da fare e ne sono convinto ancora. Ha contribuito a far diventare il tour Atp quello che è oggi. Ma ci sono cose del mio passato che, potendo, cambierei: mi prenderei più cura del mio corpo, portandomi dietro un fisioterapista ai tornei (cosa che non usava assolutamente: si viaggiava da soli) e giocherei meno. Da numero uno del mondo, nel ‘72, chiesi troppo al mio fisico».
Che il doppio sia così bistrattato dai big le spiace?
«Mi rende triste. La mia generazione ha dimostrato che si può giocare bene sia singolare che doppio: noi lo usavamo per allenarci».
Il primo risultato che si ottiene su google cercando Stan Smith è una sneaker, tutt’oggi vendutissima: che effetto fa essere un marchio globalizzato ai piedi di milioni di teenager nel mondo?
«Fu una grande idea dell’Adidas, che sostituì le iconiche tre strisce laterali con tre buchini di aerazione. Mi fa piacere che la scarpa mantenga vivo il mio nome e le do una notizia: dal 2024 le Stan Smith saranno in poliestere riciclato dalla plastica raccolta in mare. Una piccola ma importante parte nella sostenibilità del pianeta».
Ma lei le indossa?
(sorride) «È ufficiale: Stan Smith usa le Stan Smith».
In Giappone vinsi 15 mila dollari e una bottiglia di Pepsi Cola
Il più forte era Rod Laver, il più carismatico Arthur Ashe: un leader nato