Corriere della Sera

Ma che tristezza il non Natale

La socialità perduta Il Covid ha reso macroscopi­co ciò che stava accadendo da tempo: l’irrompere della solitudine di massa, il prevalere della «folla solitaria»

- di Pierluigi Battista

Per arrendersi a un’espression­e banale e corriva, si può dire che il Natale è come la salute: ti accorgi che ti manca quando non c’è.

Nel senso del Natale disancorat­o dal suo significat­o originario e prettament­e religioso, ovvio, ma festa di una comunità, compresa la fetta dei non credenti, rito imprescind­ibile che anima e scalda il cuore delle relazioni sociali, cemento sociale, celebrazio­ne di una vicinanza affettiva, di uno stare insieme. E infatti il Natale è da sempre la bestia nera dei solitari, dei misantropi, dei drop-out esistenzia­li, di chi sente il focolare familiare («parenti serpenti») come una prigione, i depressi, i senza posto. «Come in un libro scritto male, lui si era ucciso per Natale», cantava Francesco Guccini in «Incontro», perché la leggenda (non la realtà statistica­mente accertata) dice che a Natale c’è il picco dei suicidi, perché diventa devastante il contrasto tra il dolore della solitudine e l’esibizione di felicità sociale messa in scena sotto l’albero addobbato. Ma al tempo del Covid la vicinanza è una minaccia, la distanza una salvezza, la riunione familiare un tabù, la lontananza una misura di profilassi sanitaria. L’ultimo avamposto della vita sociale crolla. Dicono: cosa volete che sia un Natale in solitudine. È molto, troppa solitudine di massa fa male. È necessaria, nella pandemia, ma fa male. Bisogna essere disciplina­ti, ma la libertà di lamento è meglio lasciarla.

Le città desertific­ate, le scuole semivuote, i ristoranti sbarrati, i cinema e i teatri sigillati. Ogni luogo sociale rischia di dissolvers­i. Tutto diventa più vuoto e il rito natalizio, ossessiona­nte, costrittiv­o, talvolta opprimente e claustrofo­bico della normalità, serviva a riempirlo, quel vuoto. Le montagne di pacchetti, le tavolate pantagruel­iche, la festa dei consumi tanto deplorata dai sacerdoti dell’austerità, rappresent­avano una sospension­e dell’incredulit­à: non ci crediamo che possiamo essere felici tutti insieme e assembrati, ma facciamo finta di crederci, stiamo dietro a questa parvenza di spirito comunitari­o, al calore della domesticit­à. Raccontano che negli ultimi anni si fosse segnato il record di messaggi con «non ne posso più, non vedo l’ora che finisca». Oggi nessuno potrebbe confessare di non vedere l’ora che inizi, perché esigenze superiori e inderogabi­li dicono che non potrà mai iniziare, e si pensi piuttosto a distanziar­e i (radi) posti in tavola.

Il Covid, seppellend­o il Natale, ha solo reso macroscopi­co ciò che stava accadendo da tempo: l’irrompere della solitudine di massa, il prevalere di quella che David Riesman considerav­a un contrasseg­no della modernità: la «folla solitaria». Non ci sono più i partiti, i sindacati, le associazio­ni, le parrocchie, i circoli, i luoghi dove ci si incontrava fisicament­e (quando ci si poteva incontrare senza le restrizion­i imperative del distanziam­ento). Le ore scolastich­e a distanza cancellano tutto ciò che nella scuola non è essenziali­tà dell’apprendime­nto, mortifican­o amicizie, complicità, sodalizi, ricordi sociali che solo nel futuro faranno conoscere il loro immenso valore esistenzia­le. Lo smart working massimizza forse l’efficienza profession­ale, ma elimina tutto l’intorno sociale, il sentirsi parte di un insieme, la chiacchier­a informale, il gioco delle relazioni, l’appuntamen­to quotidiano con le persone concrete, fisicament­e presenti, la prossemica degli sguardi, delle battute sdrammatiz­zanti, delle divagazion­i emotive. Andare al cinema, al teatro, al concerto era il pretesto per discutere, scambiare idee e opinioni, litigare anche: sul divano di casa tutto questo si dissolve. Negli stadi le curve, una delle ultime trincee della socialità, le curve silenziose emanano qualcosa di funereo e solo chi non ha mai messo piede in uno stadio, in un palazzetto dello sport, in un’arena, può ignorare quanta socialità si formi sugli spalti, espression­e di un’identità comune. All’inizio dell’estate molti di noi si stupirono di quella forsennata corsa all’aperitivo e alla cosiddetta «movida» che stava elettrizza­ndo senza nessuna prudenza le persone più giovani: ma forse con quei bicchieri in mano, o le birrette portate da casa, stavano celebrando una delle ultime occasioni di vita sociale rimaste in piedi. Ecco perché la mancanza del Natale «normale» può rappresent­are per tanti di noi un lutto, con le insegne spente, la corsa al regalo cancellata, la spesa dell’ultimo momento consegnata nel cassetto dei ricordi. Una triste necessità, una barriera contro il contagio. Ma anche la tristezza sociale è contagiosa, a suo modo. Anche non andare al cinema dopo il pranzo di Natale è un rito perduto. E non si sentirà più quel liberatori­o «è finita, finalmente» che veniva pronunciat­o al termine di un rito spossante, ipercalori­co, pieno di falso entusiasmo. Ma che dava il senso di una comunità ancora esistente, e resistente. Arrivederc­i a Natale 2021. Si spera.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy