Elogio del fattorino
Accanto al medico e all’infermiere, l’altro personaggio dell’anno è il fattorino. Si fa chiamare rider, ma è sempre lui: quello che scende dalla bici o dal furgone con un pacco in mano che a volte gli sale fin sopra la testa. La pandemia lo ha trasformato in una figura decisiva, l’unico cavaliere a cui è concesso oltrepassare il ponte levatoio per approvvigionare le fortezze in cui viviamo asserragliati da mesi. Nel mondo «smart» serve qualcuno che si sporchi ancora la suola delle scarpe. E lui lo ha fatto, senza una corazza di garanzie che lo cautelasse contro i rischi del contagio e della precarietà. Le multinazionali lo avevano derubricato a lavoretto, sottopagato e ancor meno tutelato. Licenziabile nel modo più brutale, con una semplice disconnessione del telefono: conti talmente poco che non perdo neanche tempo a pagare un essere umano per cacciarti.
Ci avevano spiegato che era giusto retribuirlo a cottimo, dato che era un giovane di passaggio, e chi da giovane non ha fatto un po’ di gavetta? Poi il giovane è invecchiato e per lui la gavetta è diventata la vita. Fino a Marco Tuttolomondo, il palermitano di quasi cinquant’anni che passerà alla storia come il primo rider assunto con un contratto da lavoratore subordinato. Ci sono voluti una giudice tosta e un sindacato finalmente interessato al destino dei non garantiti. Adesso ci vorrà una legge, perché i cavalieri alla Tuttolomondo meritano uno scudo di diritti che li protegga dalle lance degli approfittatori.