Ricorsi falliti, mugugni nel partito e in famiglia Così Trump si è piegato alla (semi) concessione
Ma il presidente continuerà la sua battaglia
Tre settimane dopo le elezioni, 16 giorni dopo la proclamazione della vittoria di Biden, Donald Trump è stato costretto ad abbassare il ponte levatoio: consentendo all’agenzia federale Gsa di avviare le procedure della transizione, il presidente ha fatto capire che non rimarrà asserragliato alla Casa Bianca oltre il termine del suo mandato.
Non è la concessione della vittoria al suo successore che da secoli scandisce la vita politica degli Stati Uniti, ma il tweet nel quale annuncia il passo indietro «nell’interesse del Paese» è probabilmente la mossa più vicina a quel riconoscimento che verrà fatta da un presidente che non accetta di dichiararsi sconfitto e che dichiara di voler continuare a contestare il risultato del voto del 3 novembre, convinto che alla fine sarà lui a spuntarla.
Dopo aver incassato decine di sconfitte sul piano giudiziario e non essendo riuscito ad ottenere da un partito repubblicano comunque silenzioso e impaurito un ruolo attivo nel tentativo di togliere ogni valore al voto degli americani in quanto prodotto di fantomatiche frodi, Trump ha dovuto cambiare rotta. Ha ceduto alle pressioni del suo staff, dei suoi avvocati più realisti, di una parte della famiglia (la figlia Ivanka e il genero, Jared Kushner, mentre Eric e Donald Jr. sono ancora sulle barricate) e della stessa Emily Murphy: la fedelissima che proprio lui aveva messo alla guida della General Services Administration ha negato per settimane a Biden l’uso degli strumenti (soldi, accesso ai rapporti riservati, uso di strutture pubbliche per cominciare a costruire il suo gabinetto). Ma venerdì aveva avvertito il presidente che il fallimento dei suoi ricorsi in sede giudiziaria e le ratifiche del voto che stavano arrivando da molti Stati l’avrebbero indotta a togliere il blocco.Trump avrebbe potuto licenziarla come ha fatto — atto di una gravità inaudita — col capo della sicurezza informatica Chris Krebs, cacciato perché si era rifiutato di avallare le teorie cospirative su milioni di voti trasferiti da Trump a Biden utilizzando software fraudolenti. Ma non lo ha fatto.
In realtà gli ultimi quattro giorni sono stati un calvario per Trump: prima la bellicosa conferenza stampa di Rudy Giuliani: voleva essere l’annuncio di una guerra senza quartiere contro Biden e si è trasformato in un boomerang. Poi i leader politici repubblicani del Michigan che, convocati alla Casa Bianca, hanno respinto l’idea di ignorare il voto popolare mandando a Washington 16 Grandi elettori scelti dal parlamento dello Stato. Quindi il crescente malessere del mondo politico conservatore per un ostruzionismo del presidente nei confronti di Biden che cominciava a ricordare certi regimi illiberali: un mugugno sotterraneo fatto emergere da Carl Bernstein, il giornalista «eroe» del Watergate, che ha pubblicato una lista di 21 senatori repubblicani (su 53) che gli avevano personalmente confessato di considerare inaccettabile l’atteggiamento di Trump. Infine la rivolta del mondo produttivo e della finanza con Biden riconosciuto come nuovo presidente non solo da Wall Street (mai in rapporti distesi con Trump) e dai Ceo (quasi tutti conservatori) dei grandi gruppi industriali, ma anche da Stephen Schwarzman, capo del gruppo finanziario Blackstone, grande amico personale e consigliere di Trump.
Lunedì altre delusioni quando il Michigan ha ratificato la vittoria del candidato democratico mentre dalla Pennsylvania sono arrivate nuove sentenze avverse ai ricorsi della Casa Bianca. Donald continuerà la sua battaglia dalla Florida, cercando di restare leader politico di un popolo trumpiano che continua a seguirlo ciecamente: l’ultimo sondaggio dice che per il 79% dei suoi elettori Biden ha rubato l’elezione.
Anche il mondo produttivo e della finanza si è rivoltato contro The Donald