Covid e rivolta nelle carceri, esclusa una «regia comune» Nove arresti a Rebibbia
La mattina del 9 marzo scorso, quando il Paese stava chiudendo i battenti per la prima emergenza coronavirus e nelle carceri era già stata decisa la sospensione dei colloqui, radio e tv avevano dato la notizia di tre detenuti morti (alla fine saranno tredici) e due agenti sequestrati nei penitenziari di Modena e Pavia, mentre la rivolta montava altrove. Fu in quel momento che a Roma un gruppo di reclusi decise di accendere un fuoco anche nel carcere di Rebibbia. In quattro circondarono e aggredirono un assistente capo della polizia penitenziaria, lo picchiarono e gli rubarono le chiavi con cui hanno aperto i cancelli del braccio G11 facendo arrivare altri detenuti.
Da quel momento successe di tutto, tra devastazioni e incendi, assalto alle infermerie.
In nove accatastarono tutto ciò che veniva distrutto, per poi salire sull’improvvisato pulpito per incitare alla ribellione e minacciare chiunque si fosse intromesso. A fatica, recuperate le chiavi e organizzata la risposta, gli agenti di custodia riuscirono a riportare l’ordine. Nel frattempo, fuori dalla prigione, andava in scena la protesta dei parenti.
Per quei disordini sono stati notificati ieri nove nuovi ordini d’arresto ad altrettanti detenuti identificati come ispiratori e promotori della sommossa, al termine di un’inchiesta della Procura di Roma che conta 55 indagati (tra cui 9 stranieri) e che ha escluso, per il momento, collegamenti con gli episodi simili accaduti contestualmente in altre prigioni d’Italia, da Nord a Sud. Non ci sono elementi che confermino la «regia comune» ipotizzata durante e dopo le rivolte. Sembra essersi innescato, piuttosto, uno spirito di emulazione e la voglia di diffondere il contagio della protesta dopo la notizia dei primi tumulti.
«Il Covid è certamente un problema, ma qui si parla di condotte che vanno oltre qualsiasi protesta», spiega il procuratore di Roma Michele Prestipino a commento dell’operazione. Le indagini condotte dalla polizia penitenziaria e coordinata dai pubblici ministeri Eugenio Albamonte e Francesco Cascini ha individuato identità e ruoli dei principali protagonisti della rivolta. Fra loro c’è Leandro Bennato, 41 anni, già accusato di far parte del gruppo di narcotrafficanti guidato da Fabrizio Piscitelli, il capo ultrà detto Diabolik ucciso il 7 agosto 2019; tre mesi dopo quel delitto, Bennato venne ferito in un agguato che, secondo gli investigatori, fu un tentato omicidio rimasto ancora senza colpevoli (come l’assassinio di Diabolik).
Un altro è Vincenzo Bova, ventiseienne siciliano sotto processo per droga, che durante la sommossa si impossessò di un idrante scagliando il getto d’acqua contro gli agenti, riconosciuto dal pizzetto e dai tatuaggi variopinti sull’orecchio e sul collo. Molti degli indagati, che avevano tentato di coprirsi il volto per non essere ripresi dalle telecamere, in parte distrutte, sono stati identificati proprio dai tatuaggi che spuntavano nei centimetri di pelle rimasti scoperti o dal particolare taglio di capelli.