Conoscerlo per poi superarlo Il carcere visto da dentro
«Il Direttore» (Zolfo editore): Luigi Pagano racconta quarant’anni di lavoro nell’universo penitenziario
Il carcere vive di vita propria come un organismo, che Luigi Pagano conosce a fondo. È in grado di interpretarne l’anima, percepisce vibrazioni, umori e tensioni dei detenuti, della polizia penitenziaria e delle migliaia di persone che ogni giorno entrano ed escono per lavoro o come volontari. Dopo quaranta anni alla guida di istituti di pena, è arrivato alla lucida convinzione che il carcere è anacronistico e che deve essere superato come metodo per risarcire la collettività dal danno causato dai delitti.
Pagano non è solo un testimone, è soprattutto un protagonista della metamorfosi, difficile e lenta, che il carcere subisce parallelamente alla società, la stessa che dovrebbe tendere a trasformarlo in un sistema in grado di reinserire il detenuto nel sociale, come chiede la Costituzione. Uno sforzo al quale Luigi Pagano ha contribuito in prima persona non adagiandosi comodamente sulle occhiute interpretazioni burocratiche delle norme, ma leggendo queste in modo aperto senza mai abbandonare il solco della legge. Eppure, tranne pochi esempi, il carcere è pressoché rimasto quello del sovraffollamento, dei detenuti ammassati a consumare il loro tempo a non far niente. Un organismo che cresce costantemente nell’illegittimità.
Quello di Luigi Pagano è un patrimonio umano e professionale che dovrebbe essere sfruttato di più dopo che ha lasciato il mondo giudiziario per la pensione. Per capire perché, basta leggere Il Direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere (edito da Zolfo). Non è un libro di memorie, almeno non solo. Pagano parte dal carcere di una volta, quello del fine pena mai solo mura e sbarre che lo vide entrare in servizio a 25 anni, attraversa la riforma penitenziaria e la rivoluzione della legge Gozzini fino a raggiungere la sua massima evoluzione nell’esperimento del carcere di Bollate, riuscito sì, ma ancora troppo solitario.
«Ho proprio scelto questo lavoro, non è stato un ripiego», premette. Primo incarico Pianosa, anno 1979, quando lì c’erano terroristi e criminali di peso. «Quell’isolotto rappresentava l’antitesi della riforma penitenziaria e la mia nemesi personale, avendo centrato la tesi di laurea proprio sulla necessità che il rapporto tra carcere e mondo esterno fosse costante e fertile». C’erano Pietro Cavallero, capo della banda che terrorizzò Milano negli anni Sessanta, e alcuni terroristi delle Br che in quel momento insanguinavano l’Italia. Gli aneddoti raccontati dall’autore descrivono bene quanto fosse duro Pianosa, e non solo per i detenuti. Tre anni dopo è a Nuoro-Badu ‘e Carros dove trova il Gotha del terrorismo, e poi all’Asinara. Quindi Piacenza, Brescia, Taranto e Milano San Vittore, che in 14 anni ha trasformato radicalmente prima dell’esperienza al Provveditorato per la Lombardia e come vicecapo del Dap a Roma.
Anni in cui ha incrociato le più importanti e decisive vicende giudiziarie e i personaggi ad esse collegati che racconta quasi assumendo un basso profilo, che chi conosce Luigi Pagano sa essere una dote che accresce il suo spessore. È consapevole che nella società italiana «secoli d’evoluzione umana e giuridica, pile chilometriche di tomi e pandette, simposi, discussioni infinite non sono riusciti a sradicare quell’occhio per occhio, dente per dente che ci portiamo dentro», che è poi l’opinione di chi il carcere lo conosce solo per stereotipi e pregiudizi.
Il Direttore, però, è tutt’altro che un libro buonista. Il profondo rispetto dei reclusi, e ancor prima degli agenti, non trascina Pagano sul piano inclinato del sentimentalismo. Le sue, come detto, sono considerazioni che si fondano anche sulla lunga esperienza professionale condividendo quello che disse il cardinal Martini: «Ricambiare il male con il male parrebbe la maniera più ovvia per ristabilire l’equilibrio, la verità è invece che solo un’azione contraria, un’azione che annulli o riduca gli effetti del male, può essere veramente riparatoria». Il «Direttore» è consapevole che la chiusura del carcere è al momento un’utopia irrealizzabile, ma per intanto basterebbe migliorare quel che c’è attuando ciò che da quasi settant’anni chiede la Costituzione.