Ritroviamo l’anima, folks L’oratoria di Joe
Dietro le parole e i discorsi senza fronzoli del futuro comandante in capo, lo sforzo di «curare» un Paese diviso. Con urgenza
Per Donald Trump gli americani, specie quelli che accorrevano ai suoi comizi, erano come minimo «great», grandi, o «patriot». Barack Obama preferiva chiamarli «fellow», cioè compagni, concittadini. Per Joe Biden sono semplicemente «folks», gente.
Il presidente eletto non ha certo l’eloquenza del suo ex boss alla Casa Bianca. E non vive neanche nel mondo dell’iperbole, dell’istrionismo continuo di «The Donald».
Nelle occasioni pubbliche si fa sempre preparare un discorso scritto. Se, invece, deve rispondere alle domande dei giornalisti, si concentra abbassando la testa, fissando la punta delle scarpe, per poi riemergere con frasi il più possibile asciutte. Biden non ha mai nascosto le sue difficoltà. Alla Convention del partito democratico, lo scorso agosto, invitò un ragazzino balbuziente, Brayden Harrington, che raccontò davanti alle telecamere: «Ho avuto la fortuna di incontrare Biden nel febbraio scorso. Mi disse: lo sai che facciamo parte dello stesso club?».
Forse anche per questo, il neo presidente inizia spesso in modo piatto: «Folks, this is the deal». Gente le cose stanno così. Biden non prospera nel conflitto come Trump e non si diverte con un lessico ricercato come Obama. Preferisce creare un’atmosfera colloquiale, che non significa confidenza, complicità, ammiccamento. «Folks» è una parola calda, «inclusiva», come va di moda dire oggi. Ma è anche generica: è la folla anonima, senza volto. E implica sempre una distanza: un podio e un’audience, o meglio una comunità.
Più che come un leader assoluto, carismatico, «Joe» si presenta come un soccorritore. L’uomo chiamato a «salvare», l’anima, «the soul» dell’America. È un’immagine ricavata da un best-seller dello storico Joe Meacham, «The soul of America, the battle for our better angels» (2018). Nel titolo di una riga confluisce l’idealismo di Hegel, forse il primo ad attribuire «un carattere», «un’anima» alle Nazioni. Ma anche il pragmatismo di Abraham Lincoln che, nel suo primo celebre discorso di insediamento, il 4 marzo del 1861, richiamò i «migliori angeli della nostra natura» per convincere i sudisti a non sfasciare l’Unione. Per Lincoln erano soprattutto gli otto Padri fondatori e le loro «verità», sintetizzate da Thomas Jefferson: «gli uomini sono stati creati uguali».
Centosessant’anni dopo, Biden, a torto o a ragione, si sente investito da una missione paragonabile a quella di Lincoln. Non a caso ha chiesto a Meacham di dare un’occhiata agli «speech» più solenni, per esempio quello con cui ha accettato la nomination.
Il Paese non è mai stato così diviso e, altra espressione chiave, ora è immerso nel «buio», nell’«oscurità». La nuova amministrazione sarà «la luce» che spazza via le tenebre: un’epopea biblica. Anche se probabilmente qui Biden si è ispirato al libro di memorie pubblicato nel maggio del 2019 da sua moglie Jill, in vista della campagna elettorale: «Where the light enters». La stessa Jill, nel corso di una presentazione a Washington, spiegò che era una citazione tratta da Rumi, un filosofo Sufi del tredicesimo secolo. La spiegazione è rimasta tra pochi intimi, mentre Joe ha tradotto in termini politici il messaggio, con variazioni sul tema. La missione non è solo «rischiarare», ma anche «to heal», curare, risanare le ferite nel corpo sociale, lacerato da conflitti, aspri contrasti.
Biden ripete di voler «unificare» di nuovo l’America, archiviando la stagione del trumpismo. È pronto a lavorare «across the aisle», letteralmente da una parte e l’altra del corridoio, cioè sia con i democratici e con i repubblicani, separati da un largo spazio nelle Aule della Camera e del Senato. Ma bisogna muoversi con urgenza: non si può più sprecare tempo nel contrastare il Covid-19 e rilanciare l’economia. L’avverbio più usato, anzi gridato, da Biden, è «now», adesso. Ora e qui.
Questo è il momento in cui dobbiamo essere d’acciaio, raddoppiare i nostri sforzi e dedicarci ancora di nuovo a questa battaglia, ci siamo dentro tutti insieme
Siamo divisi arrabbiati, schierati l’uno contro l’altro. Ma non sono mai stato più ottimista sul futuro dell’America, credo onestamente che il 21esimo secolo sarà un secolo americano
Noi faremo dei passi per cambiare il corso della pandemia, ma ciascuno di noi ha la responsabilità nella propria vita di fare quello che può per fermare il virus