QUANDO UN BRAVO MEDICO NON SA COMUNICARE
Se un sanitario dice o scrive cose fuori luogo, può provocare confusione Ma anche causare allarme, reazioni e ribellioni
Fino a pochi anni fa, il principale strumento di comunicazione per un primario ospedaliero era il cosiddetto «cicalino». Un piccolo apparecchio ricetrasmittente che permetteva di essere rintracciati in ogni momento. Studenti e specializzandi lo guardavano con ammirazione. Il possesso di un cicalino era un segno di autorevolezza, la dimostrazione di occupare un gradino alto nella gerarchia sanitaria.
Oggi lo stesso primario, per la comunicazione interna ed esterna, dispone di strumenti formidabili. I colleghi lo cercano su WhatsApp (anche i pazienti, sempre più spesso), mostrando esami e chiedendo indicazioni. I social costituiscono un’agenzia di notizie personale e, volendo, un’emittente radiotelevisiva privata. Ai medici che si occupano di materie legate alla pandemia — virologi, infettivologi, epidemiologi, immunologi, pneumologi, intensivisti — le reti televisive e i quotidiani chiedono costantemente opinioni, che vengono espresse in ogni forma (scritta, video, audio), in qualsiasi momento e da qualunque luogo. Una volta sul web, quell’opinione può arrivare dovunque.
C’è un problema, però, e sta diventando evidente: un bravo medico non è necessariamente un buon comunicatore. Non ha quel tipo di formazione: non conosce determinati meccanismi, alcuni automatismi, certe semplificazioni. Spesso fa la cosa giusta, per intuizione e per buon senso. Ma talvolta fa — dice, scrive, risponde — la cosa sbagliata. Conseguenze? Confusione, quando va bene. Allarme, reazioni e ribellioni, quando va male.
Devo al professor Luca Richeldi — membro del Comitato tecnico scientifico e primario di pneumologia al Gemelli di Roma — la considerazione sul cicalino: con lui, e con altri suoi colleghi, mi è capitato di ragionare sulla comunicazione, in questi giorni. I medici coscienziosi sono preoccupati. Dovremmo esserlo anche noi giornalisti, che rischiamo di amplificare qualsiasi cosa: annunci cruciali e allarmi infondati, ipotesi legittime e frasi potenzialmente equivoche.
Ne prendiamo due, rimbalzate ovunque in questi giorni: «Normalmente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per produrre un vaccino. Per questo, senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio» (professore Andrea Crisanti); «Non c’è alcun farmaco e nessun vaccino su cui possiamo dire con certezza che non produrrà effetti collaterali negativi da quando è stato iniettato e fino ai dieci anni successivi» (proanche fessore Massimo Galli).
Sono considerazioni condivisibili, pronunciate da professionisti esperti e stimati. Nessuno, ovviamente, farà il vaccino senza le necessarie autorizzazioni e assicurazioni; ed è chiaro che non si possono escludere effetti collaterali negativi tra dieci anni, ma è altrettanto chiaro, e più probabile, che il Covid possa avere effetti negativi, nel tempo (perciò cerchiamo di evitarlo, con il vaccino).
La comunicazione è brutale, nella sua semplicità: chi parla deve sempre prevedere la possibilità di malinteso, e cercare di limitarla. Le frasi possono essere estrapolate; la citazioni sono spesso parziali; alcuni vocaboli innescano reazioni irrazionali. Chi comunica deve saperlo. Affermazioni come quelle che abbiamo riportato — ce ne sono altre, da parte di professionisti altrettanto validi — hanno creato disorientamento nell’opinione pubblica. Indro Montanelli ci diceva: «Se chi legge non capisce, la colpa è sempre di chi scrive». Vale anche per la medicina: se chi ascolta fraintende, la colpa è quasi sempre di chi parla.
Da dove vengono gli errori di comunicazione della comunità medico-scientifica? Certo, dalla difficoltà di semplificare temi complessi. Ma dalla poca dimestichezza con alcuni meccanismi: per esempio, la necessità dei media di proporre un titolo, frutto di una drastica sintesi. E dalla pressione costante dei media, che chiedono continuamente pareri e previsioni. Alcuni medici trovano difficile sottrarsi: per cortesia, per senso del dovere, per orgoglio professionale, talvolta per vanità. Il risultato è che si trovano ad esprimere commenti continui su temi delicatissimi e in evoluzione. La stanchezza e l’equivoco sono in agguato.
E, quando un’informazione entra nel ciclo delle notizie, diventa impossibile da controllare. Agenzie, notiziari, giornali e telegiornali annunciano, anche sul web. I social prendono, moltiplicano, discutono e — spesso — stravolgono.
ll professor Stefano Nava è primario di pneumologia al Sant’Orsola di Bologna. Racconta amareggiato di dover discutere quotidianamente con i parenti dei pazienti Covid che chiedono, per i ricoverati, la trasfusione di «plasma autoimmune» (ricavato dal sangue dei convalescenti). Plasma che però si è rivelato inefficace per la cura del coronavirus. Ieri uno studio condotto in Argentina — all’Ospedale italiano di Buenos Aires — e pubblicato sul New England Journal of Medicine, la bibbia della medicina clinica mondiale, non lascia dubbi in proposito. Chi ha provocato questa confusione? Alcuni medici, che si basavano solo su poche evidenze empiriche; e noi dei media, che abbiamo enfatizzato la terapia, senza capire cosa stavamo facendo.
Pericoli
Si deve sempre prevedere la possibilità di essere fraintesi, e cercare di limitarla
Alterazioni
I social prendono, moltiplicano, discutono e spesso stravolgono le informazioni