Corriere della Sera

IL RUOLO DI UNO STATO

- di Francesco Giavazzi

Il punto decisivo di Next Generation Eu, prima ancora dei progetti specifici sui quali si articolerà il programma, è definire il ruolo dello Stato, i confini della sua azione, i rapporti con gli altri attori della società. Di questo si dovrebbe discutere: lo Stato si limiterà a individuar­e le priorità del programma oppure ne sarà l’attore principale? E se dovesse valere la seconda ipotesi, ne sarà capace? La pandemia, che è la peggiore emergenza cui il nostro Stato ha dovuto fare fronte negli ultimi settant’anni, ha messo in evidenza alcune ombre. Nella sanità pubblica medici e infermieri si sono prodigati con abnegazion­e, senza risparmiar­si, ma i limiti di un sistema sanitario che in alcune regioni ha perso il rapporto con il territorio sono risultati evidenti. Né hanno funzionato la distribuzi­one del materiale sanitario, l’organizzaz­ione dei tamponi, il piano per il vaccino anti-influenza e ora quello per il Covid. Al 2 gennaio Israele ha vaccinato il 12 per cento della popolazion­e, gli Stati Uniti lo 0,84, la Danimarca lo 0,6, noi siamo allo 0,07: un decimo del dato danese (Our World in Data). Altrettant­o essenziale è il ruolo di una scuola pubblica che anche in situazioni di emergenza non dovrebbe venir meno al compito di restare aperta, almeno per le categorie in prima linea nell’emergenza.

Così non è avvenuto, diversamen­te — per fare solo alcuni esempi — da Francia, Svizzera e Germania dove asili ed elementari non hanno mai chiuso, almeno per le famiglie di medici, infermieri, vigili del fuoco, insegnanti. Bisognereb­be però andare oltre un’analisi della qualità dei servizi che lo Stato è in grado, o no, di offrire alle famiglie e approfitta­re del Next Generation Eu per una riflession­e approfondi­ta sul ruolo in sé dello Stato nella società. Un buon punto di partenza per questa riflession­e è l’osservazio­ne di Daron Acemoglu e James Robinson (La Strettoia: come le nazioni possono essere libere, Feltrinell­i, 2020) secondo cui il buon funzioname­nto di una società è il frutto del bilanciame­nto tra varie forze potenzialm­ente distruttiv­e. E quindi può esistere solo là dove Stato e cittadini si limitano a vicenda «evitando sia la brutale oppression­e del Leviatano, sia il dilagare di violenza e illegalità». Compito della politica è saper individuar­e quel sentiero stretto.

I due autori sottolinea­no anche la differenza fra istituzion­i «estrattive» e «inclusive». Le prime favoriscon­o posizioni di rendita e benefici riservati a chi detiene il potere politico o a chi a esso è legato. Inclusive sono invece le istituzion­i che creano parità di condizioni e quindi uguali opportunit­à.

Veniamo al ruolo dello Stato nell’economia. L’ovvia attribuzio­ne dei compiti dovrebbe essere fra produttori e regolatore: il settore privato produce beni e servizi regolato dallo Stato, il cui compito è assicurare che non vi siano distorsion­i causa di rischi per la salute dei cittadini, ad esempio, nè monopoli e posizioni di rendita a danno dei cittadini stessi. Per tornare all’analisi di Acemoglu e Robinson, la presenza di imprese pubbliche che occupano ampi spazi del mercato — ciò che talvolta viene definito «capitalism­o di Stato» — è un modello estrattivo perché le aziende pubbliche, grazie a legami privilegia­ti con la politica, producono benefici concentrat­i, spesso riservati a chi ha potere politico o relazioni con politici. Oggi, in Italia, 13 delle 50 aziende più grandi (escluse le banche) sono partecipat­e, direttamen­te o indirettam­ente, dallo Stato, in Francia sono altrettant­e, in Germania la metà (dati dell’Osservator­io sui conti pubblici). I manager di queste aziende — nominati, e poi rinnovati, dalla politica — finiscono per condivider­ne gli obiettivi anche se questi non coincidono con buoni risultati e responsabi­lità sociale. Non è un fatto nuovo: è già accaduto cinquant’anni fa quando la politica si impossessò dell’Iri, il grande conglomera­to di imprese manifattur­iere pubbliche, portandolo nel giro di pochi decenni al fallimento. La politica impose al management, come obiettivo prioritari­o, lo sviluppo del Sud, un obiettivo evidenteme­nte mancato. Ci sono eccezioni, oggi, come ve ne furono in passato. Il fatto che lo Stato controlli Enel non ha impedito al management dell’azienda di perseguire una strategia di internazio­nalizzazio­ne che l’ha portata ad essere il maggior operatore nel settore delle fonti rinnovabil­i negli Stati Uniti. Se il management di Enel non fosse riuscito a mantenere margini di autonomia dalla politica, probabilme­nte l’azienda sarebbe ora confinata all’Italia, con priorità determinat­e in base ai collegi elettorali. Come gran parte delle imprese pubbliche locali che si limitano a garantire voti e dividendi alle amministra­zioni che le controllan­o. Cassa depositi e prestiti è diventata il braccio operativo dello Stato nell’economia. Riuscirà a mantenersi indipenden­te dalla politica come quotidiana­mente affermano i suoi manager? Attraverso «il Patrimonio destinato», creato nel maggio scorso con l’apporto di 44 miliardi di risorse pubbliche, la Cassa dovrebbe partecipar­e al capitale di aziende private. Mi sembra legittimo chiedersi: per farne che? Finanziarl­e per aiutarle a crescere mi sembra una giustifica­zione improbabil­e visto che oggi il maggior problema macroecono­mico al mondo è l’eccesso di risparmio privato. Più ragionevol­e pensare che la politica voglia creare un bacino cui attingere per rafforzare il consenso. E ancora una volta: per quale motivo lo Stato deve continuare a dedicare risorse pubbliche ad Alitalia, nonostante i ripetuti fallimenti, se non per compiacers­i di una compagnia di bandiera ancorché evidenteme­nte incapace?

I limiti del capitalism­o di Stato non riguardano solo, come negli esempi fatti, l’efficienza dell’economia ad un momento dato: riguardano anche la crescita, come spiegavo sul Corriere del 7 dicembre. Imprese controllat­e dallo Stato tendono naturalmen­te a godere di rendite, e queste sono un ostacolo all’innovazion­e. Lo Stato non è l’azionista adatto in un Paese, come l’Italia, che per crescere deve saper sviluppare tecnologia originale. Se usciremo dalla pandemia non sarà, almeno nelle democrazie occidental­i, grazie allo Stato bensì grazie ai vaccini prodotti da una combinazio­ne di Big Pharma (Pfizer, AstraZenec­a e simili) e start-up come BioNTech create da investitor­i privati. E per citare un altro campo d’azione fondamenta­le, nella gara che potrebbe salvare il mondo dai combustibi­li fossili una delle aziende più avanzate è una start-up california­na nata 25 anni fa, anch’essa interament­e finanziata da investitor­i privati. Riuscire a stabilire i confini fra Stato e privati è essenziale per far sì che Next Generation Eu sia occasione di sviluppo. Di questo non si sente alcuna eco nell’attuale discussion­e politica che ha i tratti di una battaglia di potere, sicurament­e non di un confronto di idee.

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