LE MIE GATTE E L’ARTE DI PERDERE LE COSE
Ieri una delle mie gatte ha visto un fantasma. C’è una foto che lo dimostra: lei e la sorella sono in piedi sulla scrivania a giocare con chissà cosa — la tastiera del computer, un mazzo di penne, la busta contenente una bolletta che devo ancora pagare — quando a un certo punto lei, e solo lei, sporge il collo, drizza le orecchie e guarda al di là della porta, fino alla fine del corridoio.
Certo, a distrarla sarà stata una rifrazione, un rumore che orecchie meno sensibili di quelle feline non sanno registrare, ma se dovessi decidere come catalogare la foto che ho scattato sceglierei l’etichetta «fotografia spiritica»: ho sempre amato le vecchie immagini in bianco e nero con cui, nel secolo scorso, si cercavano o si costruivano eccentricamente le tracce della presenza terrena degli ectoplasmi. Catturare l’invisibile era possibile solo ai nuovi macchinari, che incuriosivano e spaventavano la popolazione. Ed era possibile agli animali, soprattutto ai gatti, considerati capaci di fiutare e prevedere gli eventi più disparati, dalle gravidanze ai terremoti.
Non so se qualche gatto avesse previsto la pandemia, le mie di sicuro no perché l’anno scorso non esistevano ancora e in mezzo al virus ci sono nate, in un giorno di luglio, nell’estate in cui una parte della popolazione voleva convincersi di essersi lasciata alle spalle mascherine e preoccupazioni. Infatti sono entrambe accorte, intuitive e pronte alla disobbedienza quando è il caso di salvarsi la pelle: sono nate sagge in un mondo un po’ superficiale, e questa è la prima cosa che ho imparato da loro.
Sembrano abbindolabili con poco: il rumore della ciotola, l’odore della scatoletta, ma ci sono cose su cui non molleranno mai la presa, nemmeno al duecentesimo tentativo, come il cavo del caricabatterie.
Così, quando mi sono chiesta cosa potesse avere di tanto interessante quel preciso filo nero, e perché, fra tanti, pure appetibili (televisore, tablet, computer, lampadine), entrambe avessero scelto lui come preferito, ho pensato a tutte le volte che lo lascio a casa prima di uscire, dicendomi: ma sì, sto fuori solo qualche ora.
Succede invece che io poi stia via fino a sera, inghiottita dalle paludi romane (Roma è come una capitale del Sudamerica: sai quando esci di casa, ma non sai davvero quando tornerai), con la testa a quel cavo che avrei dovuto mettere in borsa per evitare che a un certo punto il telefono, esalando l’ultimo respiro, mi abbandoni proprio nel momento della giornata in cui serve di più.
Non so se in tutto questo ci sono un insegnamento un rimprovero, una marcatura, o semplicemente un disegno che vedo solo io. Loro, del resto, vedono i fantasmi: ci siamo spartite le visioni, e a me sono toccate le meno interessanti.
Di certo, nella seconda metà del 2020 ho imparato dalle mie gatte a fidarmi di ciò che non so, ed è successo dopo che la prima metà dell’anno era stata una lotta con i draghi e gli ippogrifi, che aveva sollevato paure sconosciute, ipocondrie e concentrati di razionalità, richiedendo il massimo sforzo per un adattamento che rischiava a ogni passo di farmi sentire meno umana, meno viva. Il virus arrivava come un’onda stravolgendo abitudini, disturbando equilibri e tirandosi dietro pensieri che mai avrei pensato di avere.
Come tutti, mi sono arrangiata come ho potuto, cercando di limitare il dolore ai lutti e alle malattie ed evitando di restare ancorata alla cosiddetta «vita di prima», quella che molti dicevano di volere indietro. A me invece quella richiesta non apparteneva: quando ogni cosa ha iniziato a fare rumore di scricchiolii, ho sentito che non era tempo di tenere insieme, ma di lasciar andare.
Prima del 2020 non ero mai riuscita a staccarmi da nulla, avevo sempre lasciato che fossero le cose a staccarsi da me, e intanto sognavo, come un’allegra malinconia, l’insegnamento della poesia di Elizabeth Bishop, L’arte di perdere le cose: «Perdi un cosa al giorno. Con malestro / accetta chiavi perse, un’ora al vento. / L’arte di perdere s’impara presto». Ammiravo queste parole, ma non le sentivo fino in fondo mie, ogni tanto provavo a tendere a loro ma non le raggiungevo mai. Finché non sono arrivati i topini giocattolo.
Chiunque abbia vissuto con un felino sa che tipo di rapporto autonomo creino con le cose e con lo spazio, e le mie gatte non facevano eccezione, fin dai primi giorni: ridisegnavano gli oggetti, i varchi, le potenziali cucce in vista dei bisogni necessari, mangiare, dormire, giocare.
Giocavano volentieri con molte cose ed erano schifosamente altezzose con altre, com’è giusto che sia nel loro carattere misterioso. Ma quando una mia amica ha portato loro in regalo due topini, due piccole prede, sono letteralmente impazzite. Se fino a quel momento mi ero limitata a raccattare un libro da terra, a raddrizzare una lampada, a spostare una poltrona, con i topini potevo dire addio a qualsiasi tentativo di controllo.
Le gatte li avrebbero predati, cacciati, morsi, nascosti, sepolti chissà dove, dissotterrati seguendo logiche tutte loro che mai e poi mai avrebbero condiviso con me né con nessun umano. I topini erano in casa, ma erano roba loro: ne avrebbero avuto signoria assoluta, quanto a me, ogni tanto li avrei sentiti tornare in superficie, accorgendomi della loro presenza dal rumore insistito di un divertimento serissimo e tutto particolare.
Ho finito il 2020 con la sensazione di aver passato moltissimo tempo a cercare di capirlo, questo anno strano, di mettere le cose a posto, ordinarmi e riordinarmi la vita. È stato faticoso e a volte frustrante, ma anche inevitabile. Tuttavia, continuo a non sapere dove le gatte nascondono i topini, pur in questa casa minuscola, e so che non lo scoprirò nemmeno nel 2021. Però ho capito il senso della poesia di Bishop, e come insegnamento dell’anno mi sembra il più inaspettato che potessi ricevere.
Il virus è arrivato come un’onda, poi ho imparato a fidarmi di ciò che non so