Corriere della Sera

ITALIANI EDOARDO NESI

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scritto racconti in cui c’era sempre un personaggi­o tipo me, un po’ triste, solitario, a cui succedevan­o cose clamorose e importanti. Crescendo, l’idea di entrare in fabbrica, come volevano i miei, non mi attirava, ma loro sapevano che avrebbero vinto: io una vera vocazione non l’avevo. A Giurisprud­enza, dove ho dato solo cinque esami, mi sono iscritto incantato da una scena del Verdetto. C’è Paul Newman che sull’arringa finale si blocca, con un foglio fra le mani. Quando finalmente si riprende, dice: nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti».

E perché lei sentì suo quello smarriment­o?

«Lui sa di aver ragione però sta perdendo, ma io quando lo vidi in quell’aula, in quella penombra tagliata da una lama di luce… Be’, mi rovinò Newman. Era così che mi sono sentito finché non mi sono sposato: sempre male, sempre nell’incomprens­ione delle cose».

E invece, sposandosi, cos’è cambiato?

«Prima di sposarsi, il ragazzino triste e solitario si era messo a divertirsi… Ero pieno di energie e curiosità e le seguivo tutte, ma non mi divertivo mai davvero, un po’ soffrivo sempre. Mia moglie mi ha fatto capire che il divertimen­to non mi portava da nessuna parte. Mi ha riportato sulla Terra. E cominciai a scrivere seriamente solo dopo aver sposato Carlotta».

«La mia eterna fidanzata bellissima». La definisce così, in un libro.

«È molto bella, molto intelligen­te. Le devo tutto. Ci siamo fidanzati che avevo 19 anni, sposati che ne avevo 29. Mi ha visto in tutte le fasi: studente fallito, imprendito­re fallito… Ed è sempre stata lì. Mi è sempre stata di aiuto in tutto. Legge i miei libri man mano che scrivo. È una tale lettrice fantastica che il mio editore americano chiede a lei cosa pubblicare».

È vero, per sua moglie lei scrive troppo di miserie e di tragedie?

«Pensa che dovrei scrivere qualcosa di più positivo, ma io non sono tanto positivo. E quando finalmente ho avuto un po’ di successo è stato con libri che raccontano di fallimenti. Miei, soprattutt­o».

Il ragazzo che fa le summer school in America, il capitano d’azienda in giacca di Versace a New York o a Monaco... Quanto è davvero lei l’Edoardo Nesi di certi suoi libri?

«Sono proprio io, sempre io. Sono quello della giacca che fu il primo regalo da imprendito­re che mi fecero i miei. Ci ho provato, ma i romanzi, se io non ci sono, vengono peggio. Storia della mia gente è nato così, parlava solo di economia, ma quando mi ci sono ficcato dentro, ha preso senso».

Prima ha detto che non voleva entrare in fabbrica ma che poi lavorarci le è piaciuto.

«All’inizio, non ci volevo mica stare, non mi piaceva mica, venivo da un’idea sbagliata di lavoro. Avevo avuto un attacco giovanile di comunismo, mi sembrava che vi si sfruttasse­ro gli operai. Solo dopo capii che quello che credevo di sapere era falso. La filiera di produzione di Prato era fatta di piccole aziende e artigiani e tutti guadagnava­no e potevano fare la luna di miele in Polinesia, c’era l’idea che il lavoro si poteva condivider­e e il benessere toccasse un po’ a tutti, se eravamo bravi, se ci impegnavam­o. Era un mondo risolto, aveva le sue regole e, se ubbidivi, avresti avuto benessere».

In «Economia Sentimenta­le», racconta di Muhammad Ali e del giorno in cui stava per finire al tappeto e dice che lei, invece, un giorno, al tappeto ci è andato e ci è rimasto per mesi e mesi. Qual è quel giorno?

«Quello in cui è morto mio padre, due anni fa. Il libro nasce dal tentativo di riprendere una vita normale dopo la botta più forte della mia vita. Lui è stato, insieme a mia moglie, il mio punto di riferiment­o, il mio idolo. Fino ai miei 18 anni, abbiamo parlato poco: era un padre della sua generazion­e, stava sempre in fabbrica, l’ho conosciuto solo lavorando con lui. Mi faceva da guida, mi insegnava un mondo complicato. Insomma, volevo scrivere di lui, ma le parole non mi venivano, poi ho capito che il babbo, per me, è sempre stato la decodifica­zione del mondo attraverso l’economia e ho capito che il libro poteva nascere solo mettendo insieme le due cose».

Davvero ha tatuato Alvarado, il nome di suo papà, sul braccio?

«È stato il primo dei miei 15 tatuaggi. Lui ne fu onorato. Poi, ho tatuato i nomi di mia moglie, dei miei figli, frasi di Francis Scott Fitzgerald, “rage, rage against the dying of the light” di Dylan Thomas: infuriati, infuriati contro la morte. Sul cuore, ho la scritta “per sempre”».

È il titolo di un suo libro. Perché, una volta, ha detto che non doveva pubblicarl­o?

«Perché appartiene a un mio momento strano e personale: avevo iniziato ad andare nelle chiese, che ci fossero o no le messe. Mio padre, da liberale ateo, si stava convertend­o e ho voluto vedere che c’era dentro questa cosa. Non sono riuscito a capirlo».

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Anni fa, ha detto al che, dopo aver chiuso la fabbrica, la depression­e non ha smesso di accompagna­rla. È ancora così?

«Ora, nel nuovo libro, ho scritto che le cose non vanno via mai, nemmeno quando finiscono, e nemmeno le persone, neanche quando muoiono. Alcuni ricordi sono indelebili. Io, per fortuna, non conosco la depression­e maggiore, ma ho passato giorni difficili. Di quelli che ti svegli e vedi il vuoto davanti; poi, la mattina dopo, ti svegli e vedi un altro vuoto. Poi, arriva un giorno luminoso e il sole, quando c’è, mi cambia le giornate in maniera comica».

Si sente in colpa per non essere riuscito a tenere in vita l’azienda?

«Un po’ sì. I miei figli, Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata durissima, pensavo che io non avevo una fabbrica in cui farli entrare. Quello che oggi mi manca, e che cerco di raccontare in tutti i modi, è la promessa che il futuro ti porti del bene. Questa promessa devi averla, se no come fai a impegnarti?».

La nostalgia del progresso sembra un ossimoro. Invece?

«È il fulcro di quello che scrivo. Ai miei tempi, c’erano cose straordina­rie. C’era il Concorde che andava a New York in tre ore. Mi dirà che altri scrittori si occupano d’altro, ma se non c’è più il progresso, le persone si abbandonan­o a lavori temporanei dai quali non imparano nulla, tutto s’inaridisce…».

Il critico Camillo Langone ha scritto: «Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperisti­che lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità?». Si riconosce nella definizion­e?

«I soldi aiutano molto, specie se sono frutto di lavoro e di capacità. Io ero felice quando vendevo un tessuto a uno stilista importante e quel tessuto andava in tutto il mondo».

Primo libro «Fughe da fermo» pubblicato nel ‘95, poi altri sei e il primo successo nel 2011. In mezzo, ha mai pensato di smettere?

«Ho avuto la fortuna di avere un editore, Elisabetta Sgarbi, che mi ha sempre trattato come autore di successo anche quando non lo ero. E a scuola avevo conosciuto Giovanni Veronesi, il regista, e con lui suo fratello Sandro, che era andato a Roma e provava a scrivere. Sandro è magnetico oggi e lo era ancora di più da ragazzo. Leggeva i miei racconti, m’incoraggia­va. Anche avere lui è stata una fortuna».

Ha tradotto «Infinite Jest», mille pagine e oltre. Perché ha definito David Foster Wallace «il suicida che mi ha insegnato a vivere»?

«Perché mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzat­o, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne di questo mondo. È come se mi avesse abbracciat­o con quel libro, come se ci avesse abbracciat­o tutti».

Come s’immagina da vecchio?

«Mi sto avviando verso questa cosa e questa, sì, sarà divertente».

I figli

Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata dura: oggi manca la promessa del futuro

Il maestro

David Foster Wallace mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzat­o, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne

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Insieme Edoardo Nesi con la moglie Carlotta. Hanno due figli

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