MA IL FUTURO DELLA CHIESA È SOLO TRA LE PLEBI?
Vorrei innanzi tutto ringraziare monsignor Forte per il suo intervento. Dal momento che ancora oggi non è affatto comune nelle gerarchie cattoliche accettare un franco scambio di opinioni su certi argomenti. È in questo spirito di cordiale franchezza che dunque continuo la discussione che egli ha avuto la cortesia di avviare.
Questione del «declino del cristianesimo» (io preferisco chiamarla scristianizzazione). Ha ragionissima il mio interlocutore: pure nel mondo attuale le «domande esigenti sul senso della vita» e quindi da molti punti di vista «il bisogno e la ricerca di Dio» restano vivi e presenti. E di certo non solo tra i giovani. Ma proprio per questo mi sembra che da parte della Chiesa sia assolutamente carente una riflessione sul perché mai la sua pastorale non riesca più in alcuna misura a soddisfare le domande e il bisogno di cui sopra. Perché mai essa non riesca in alcun modo a incontrare la nostra epoca, in particolare nei punti alti del suo sviluppo. O essa pensa davvero che il suo futuro sia esclusivamente nelle misere plebi del Sud del mondo? Plebi di cui peraltro essa non può che auspicare, com’è ovvio, un elevamento e un progresso che le portino alle medesime condizioni delle nostre contrade, e quindi presumibilmente a un’identica perdita della fede?
Quanto al riconoscimento e al peso del Cristianesimo come fatto pubblico, se sono giudicati entrambi così superflui e anzi tutto sommato negativi, come dice monsignor Forte, mi domando perché mai allora, pur dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa si sia sempre, però, mostrata attentissima (ultimo il caso dell’aborto in Argentina) a combattere le legislazioni statali che in un qualsiasi modo offendessero i suoi principi o i suoi interessi (vedi ad esempio le legislazioni fiscali). O perché non abbia mai ripudiato, a quel che mi consta, lo strumento così tipicamente pubblicistico dei concordati. E quanto al compromesso cristiano-borghese otto-novecentesco — oggi, mi pare, giudicato con occhio così critico — è forse meno scevro di contraddizioni e di pericoli, torno a domandarmi, l’attuale compromesso cristiano-comunista che invece la Chiesa di Francesco si sforza con ogni mezzo di realizzare con la tirannide cinese? Davvero a Pechino si respira meno anticlericalismo che nella Francia massonica delle leggi Combes?
Riguardo infine alla democrazia. Assicuro monsignor Forte che non mi è passata neppure per l’anticamera del cervello l’idea di discutere il diritto pieno e assoluto del Pontefice di dettare alla Chiesa la linea che egli ritiene la più giusta, e di farlo con la dose di sinodalità o meno che egli ritiene la più giusta (magari anche con le opportune eccezioni del caso...). Non è questo in discussione. In discussione è la possibilità o meno di coloro che fanno parte dell’istituzione ecclesiastica di veder rispettati i diritti della persona e le relative garanzie che la stessa Chiesa chiede agli altri di rispettare. Per esempio per quanto concerne i procedimenti di tipo giudiziario. È per l’appunto la totale indifferenza rispetto ai diritti e alle garanzie di cui sopra, manifestata nel modo più clamoroso in casi recenti (monsignor Forte capisce a cosa mi riferisco) che induce a porsi le domande in tema di democrazia che io mi sono posto. L’autorità dottrinale del Papa non c’entra niente.