ACCADEMIA PER INIZIATI? NO, GRAZIE
Elzeviro La lezione di Carlo M. Cipolla
In questi vent’anni, da quando ci ha lasciati, la terra gli è stata lieve: i suoi libri sono ancora ripubblicati, non solo i divertissement Allegro ma non troppo e Le leggi fondamentali della stupidità umana, tradotti in decine di lingue e giunti a mezzo milione di copie (in Italia li pubblica il Mulino), ma anche le sue storie della sanità, dell’educazione, delle tecnologie, della lira. Un caso apparentemente inspiegabile, trattandosi di uno storico dell’economia.
Carlo M. Cipolla (Pavia, 15 agosto 1922 – 5 settembre 2000: nella foto), la cui reputazione mondiale familiarizza con quelle di Marc Bloch, Fernand Braudel, Lucien Febvre, Henri Pirenne e David Landes, era un coraggioso bastian contrario. Dava il meglio di sé quando smontava le teorie accolte senza troppe verifiche dall’accademia: «Un gioco — scriveva — in cui la realtà rischia di venir forzata e deformata per provare la teoria».
La sua impresa più ardua fu convincere gli economisti, troppo impegnati a elaborare teorie sulla base di modelli matematici, che se non capivano il passato non avrebbero previsto il futuro. Li obbligò a prendere in considerazione, oltre alle epidemie, il fattore umano e l’abuso delle risorse del pianeta. Mise in fila le informazioni sul secolo in cui viveva, il Novecento, e concluse: «È sufficiente dare una semplice occhiata alle cifre per convincersi che una porzione veramente eccessiva delle risorse disponibili è stata impiegata nello sviluppo quantitativo dell’umanità, anziché nel suo miglioramento qualitativo». L’avventura intellettuale e umana di Cipolla è ora ricostruita, con lo stesso stile del maestro, da Giovanni Vigo, che assunse la cattedra di Cipolla a Pavia quando lui, a metà degli anni Settanta, veleggiò verso altri lidi andando poi in pensione come professore emerito a Berkeley e della Normale di Pisa. In Carlo M. Cipolla. Un viaggiatore nella storia (Cisalpino, pp. 177, 22) persino Vigo sembra meravigliarsi della modernità del maestro quando, in tempi non sospetti, analizzò gli effetti economici dei lockdown resi necessari dalle epidemie di peste. Raccontò del «negazionismo» di un re d’Inghilterra che minacciò di boicottare le città italiane che erano decise a far valere le più elementari norme sanitarie. Cambiò idea appena il morbo mise in ginocchio Londra. Se Boris Johnson l’avesse letto, non avrebbe dovuto apprenderlo a proprie spese.
Professore in California, spingendo lo sguardo oltre il Pacifico, Cipolla non si capacitava di come l’evoluto Impero di Mezzo fosse, in pochi decenni, divenuto un paria dell’Occidente. Dimostrò quindi che responsabile fu l’arroganza culturale di epoca Ming, che ostacolò in Cina il progresso tecnologico: lo stesso, rappresentato all’epoca da vele e cannoni, che permise alla Spagna, poi a Olanda e Regno Unito di sottomettere continenti. Spiegò i rischi della tecnologia: «Ogni qualvolta insegniamo delle tecniche, dovremmo insegnare le implicazioni etiche dei loro usi. Istruendo un selvaggio nelle tecniche più avanzate, non se ne fa una persona civile, se ne fa solo un selvaggio più efficiente». Sollevando veli (e polveroni), Cipolla si attirò anche critiche. Chissà, poi, quanti colleghi, osservanti del linguaggio per iniziati, alzarono il ciglio quando assestò loro il colpo letale asserendo: «Gli storici migliori sono quelli che con la magia della parola sanno produrre il senso della prospettiva storica e della indescrivibile complessità della vicenda umana. Saper fare questo non è più solo scienza: è arte».