La storia al tempo di TikTok senza passato e senza futuro
Nell’Ottocento l’uomo europeo prendeva pienamente coscienza della sua dimensione storica, sentiva di essere fondamentalmente il prodotto del passato, percepiva che la sua identità faceva tutt’uno con la sua storia. Questa percezione diffusa è entrata in crisi da tempo per molte ragioni alle quali è qui impossibile anche soltanto accennare. Mi limito a osservare come, tra di esse, vada collocata la stessa crisi dei partiti politici novecenteschi, i quali erano e si percepivano come prodotti della storia.
Particolarmente rilevante, in quest’ambito, è stato il crollo dei regimi comunisti e con essi la crisi dell’ultima grande ideologia politica che ancora assegnava alla storia un ruolo centrale, fino al punto di sostenere (credendoci sempre meno, ma questo è un altro discorso) di sapere dove essa avrebbe portato.
Ciò che soprattutto appare rilevante è però che, alla crisi della dimensione della storicità già in atto da decenni, si sia poi aggiunto un potentissimo fattore di accelerazione: il web. Internet alimenta l’illusione che si possa conoscere la storia senza studiare, poiché tutto si trova già disponibile senza dover fare alcuna fatica nell’immenso deposito della Rete.
Come si capisce, questo modo di porsi di fronte alla storia (ma il discorso, evidentemente, vale anche per altre branche del sapere) si è incontrato alla perfezione, in Italia e non solo, con l’affermarsi della sciagurata didattica delle competenze di matrice anglosassone che ha scalzato la tradizionale didattica delle conoscenze. Se per quest’ultima la storia andava studiata per poterla conoscere, per l’altra basta in fondo saper navigare in Rete per trovare immediatamente qualunque cosa si cerchi riguardo al passato. Del resto, ormai si ritiene che la approfondita conoscenza della disciplina sia secondaria per gli stessi docenti.
Ma la conseguenza negativa del web sulla crisi del nostro rapporto col passato è soprattutto un’altra. Attraverso Internet si è affermata una nuova dimensione esperienziale e cognitiva che ha avuto varie definizioni, tra le quali la più efficace è probabilmente quella di «eterno presente»: in essa, infatti, ogni distinzione temporale sembra annullarsi nell’istante che assorbe tutto e nel quale ogni fatto diventa contemporaneo.
Lo diventa, evidentemente, in un senso ben diverso da ciò che intendeva Benedetto Croce quando affermava che la storia è sempre storia contemporanea, muove cioè sempre da domande e interessi di chi la indaga. Ora tutta la storia è diventata contemporanea perché «esiste» contemporaneamente nel tempo annullato del web, nel suo eterno presente o — come potremmo anche dire — nel suo eterno istante.
Se pensiamo a quanto la percezione del tempo e dunque del passato caratterizzi e distingua gli esseri umani rispetto a ogni altra specie animale, si affaccia qui il rischio di una vera e propria trasformazione antropologica: «Osserva il gregge che ti pascola innanzi — scriveva Nietzsche —: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato».
Se per chi si è formato nell’età della scrittura la Rete può rappresentare anzitutto uno straordinario strumento di documentazione, per i cosiddetti nativi digitali — che spesso vivono in simbiosi con lo smartphone — le cose stanno diversamente. Sono soprattutto loro che, di fronte all’enorme numero di informazioni storiche che il web rende disponibili facilmente e contemporaneamente, vedono sconvolta e tendenzialmente annullata la percezione dello scorrere del tempo; vivendo una parte significativa della loro giornata in contatto con i social media, la dimensione del tempo, per così dire, si soggettivizza rendendo perciò problematico mettere a fuoco un tempo storico estraneo a sé. Lo stesso medium attraverso cui la conoscenza del passato è stata comunicata per secoli — la parola scritta —, già sempre meno rilevante nella nuova civiltà dell’immagine, risulta ormai poco familiare a ragazzi e ragazze che tra i social media amano in modo particolare quelli che si fondano sulla rappresentazione visiva: Instagram per le foto, TikTok per i video.
Non a caso, chi si trova a insegnare materie storiche all’università sperimenta da qualche tempo un nuovo tipo di ignoranza, quella di chi non è che ignori semplicemente in che anno si è svolta la Gloriosa rivoluzione inglese o quando è nato il Regno d’Italia e così via. Gli studenti impreparati sono sempre esistiti. La novità sta nel fatto che oggi molti di loro non percepiscono neppure perché dovrebbe essere rilevante, che differenza faccia mai collocare Lutero nel Trecento o Cavour nel Settecento. È che a costoro appare sempre più estranea la dimensione stessa del passato, di una storia concepita come una serie di epoche diverse, in una successione che non può essere composta e scomposta a piacimento come avviene invece nella navigazione in Rete.
Si tratta di un fenomeno tanto più gravido di conseguenze poiché, anche in questo caso, non è contrastato dall’unica struttura che sarebbe in grado di farlo: la scuola. Ormai infatti, in forme diverse nei vari Paesi, l’insegnamento scolastico, di fronte alla perdita della stessa capacità di percepire l’alterità del passato, rischia di operare come acceleratore del fenomeno invece che come fattore di contrasto.
Ogni distinzione temporale sembra annullarsi nell’istante che assorbe tutto