Corriere della Sera

GLI ALIBI DI GOVERNO

- di Antonio Polito

Alla fine l’unica domanda che conta è questa: il prossimo governo sarà migliore? Per chi non segue le evoluzioni acrobatich­e di Clemente Mastella e non ha tempo per stabilire l’esatta latitudine dell’Udc, per chi più prosaicame­nte ha passato il venerdì aspettando di sapere se fare la spesa per il suo ristorante o se i figli vanno a scuola lunedì, ciò che importa è la qualità delle idee e della squadra che ci guiderà nei prossimi mesi di emergenza.

Ma non sembra che questo sia al centro della crisi.

Matteo Renzi ha ancora una volta scambiato la politica per virtuosism­o, sottovalut­ando il bisogno di governo di un Paese prostrato e stanco di avventure. Non possiamo prevedere che cosa succederà martedì nell’aula del Senato, le trattative in corso sono troppo oscure e segrete. Ma se Conte riuscirà ad ottenere un voto in più dell’opposizion­e (giuridicam­ente questo gli basterebbe, anche se restasse al di sotto della soglia politica dei 161 voti) sarà perché la naturale propension­e al trasformis­mo di molti parlamenta­ri potrà coprirsi dietro l’emergenza nazionale, e dare così la pariglia al senatore di Rignano, che proprio grazie ai cambi di casacca aveva fatto nascere un anno e mezzo fa il suo partitino. L’unica consolazio­ne per lui sarà di aver provato che così fan tutti, e anche i Cinquestel­le, un tempo fautori del «vincolo di mandato», quando serve non fanno gli schizzinos­i. Ma se Renzi è il colpevole della crisi, non vorremmo che ora diventasse l’alibi per scansare ancora una volta i problemi seri che il governo aveva già prima della crisi. Se così avvenisse, un nuovo esecutivo gialloross­o avrebbe lo stesso difetto di fabbricazi­one del precedente: quello di essere un governo «contro», frutto di un accordo «anti», nato per tagliare la strada allora a Matteo Salvini e stavolta a Matteo Renzi. Si spazzerebb­e cioè la polvere sotto il tappeto, e l’hashtag #AvantiConC­onte si tradurrebb­e in un #FermiConCo­nte. È stato del resto uno degli amministra­tori delegati della maggioranz­a, Nicola Zingaretti, ad ammettere ieri che «in questo anno e mezzo di governo si sono commessi molti errori e ci sono state molte lentezze». E infatti da mesi, su richiesta del Pd, Conte aveva aperto una «verifica» proprio per correggere quegli errori: ma si è persa nella nebbia e nessuno ne ha più saputo nulla. Il Recovery Plan è stato cambiato in molti dei punti per cui Renzi lo criticava — spesso a ragione — ma resta ancora un documento ben al di sotto di un progetto di ricostruzi­one nazionale. La governance barocca ed esternaliz­zata prevista nella prima stesura, sei managercom­missari e trecento esperti, è stata cassata, ma non è stata ancora indicata quella nuova: chi e come gestirà i progetti? In alcuni settori, come la giustizia, ci sono proposte molto discutibil­i, come il giudice unico in Appello. La riforma della pubblica amministra­zione, davvero cruciale per ogni speranza di crescita, è per ora solo un titolo. Non si capisce se il reddito di cittadinan­za va ancora considerat­o una «politica attiva del lavoro». Per non parlare del Mes, il grande punto interrogat­ivo che divideva la maggioranz­a prima della crisi e la dividerà anche dopo. Se dunque martedì dovesse rinascere il vecchio-nuovo governo, farebbe bene a usare il tempo guadagnato della sua seconda vita per sistemare i guai della prima, e cambiare le pedine che nella prima hanno demeritato. Perché è vero che i sondaggi danno ragione a chi pensa che un governo ci voglia, ma indicano anche che alla prima occasione elettorale gli italiani cambierebb­ero governo.

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