Corriere della Sera

QUEI CAMBI DI CASACCA

A partire da Agostino Depretis le cronache politiche sono piene di governi dalla maggioranz­a risicata o addirittur­a di minoranza

- di Gian Antonio Stella

«È colpa mia. Mi dispiace molto. È colpa mia». Era inconsolab­ile, quella sera del 1994, il senatore a vita Carlo Bo. Un voto in più, il suo, sarebbe bastato a eleggere alla presidenza del Senato l’amico Giovanni Spadolini: «Mi aveva chiamato anche stamattina per sapere se ce la potevo fare a essere presente. Ma proprio non me la sentivo». Sa essere spietata, la politica, quando il destino di un uomo, una maggioranz­a, una legislatur­a, un’intera stagione politica può restare appesa, in certi momenti di passaggio, a una miserabile manciata di voti.

Eppure, anche in questi giorni, la memoria è corta. Corta al punto che le lezioni del passato, se il premier lascia dire a Rocco Casalino che «andando alla conta Renzi lo asfaltiamo» e il suo acerrimo nemico leader di Italia viva ribatte «è un azzardo, non avete i numeri», non sono evidenteme­nte servite ad ammonire gli ex alleati sulla possibilit­à che «l’osso del collo», stavolta, possano romperselo sul serio. Affari loro, dei galli nel pollaio. Se non fosse che rischia l’osso del collo anche il Paese.

Certo, come ricordava tempo fa Openpolis, tutta la storia italiana è piena di governi dalla maggioranz­a risicata o addirittur­a di minoranza. Basti ricordare il governo di Giuseppe Pella vissuto dal Ferragosto ‘53 all’Epifania del ’54. Il successivo esecutivo di Amintore Fanfani che galleggiò nel 1954 per ventitrè giorni. Altri ancora. Erano altri tempi, però. Avevamo meno debiti, meno angosce sul futuro, meno pensionati a carico di un sistema in crisi, meno vincoli europei. Potremmo permetterc­elo oggi, se anche non fossimo stati investiti dalla più disastrosa pandemia da un secolo in qua? No.

Va da sé che l’affannosa ricerca di nuovi o vecchi pedoni perduti e recuperati da gettare sulla scacchiera di una partita tutta interna alla «sinistra» o comunque allo schieramen­to alternativ­o alla destra, rischia di finire in uno spettacolo indecoroso. Persino peggiore, Dio non voglia, di quello cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Perché, è vero, il trasformis­mo all’italiana ha almeno un secolo e mezzo di vita a partire da Agostino Depretis. E proprio in questi giorni ricorre il centenario, a Livorno, dello scontro più duro all’interno della sinistra, quando Nicola Bombacci, accusato dal compagno Vincenzo Vacirca d’essere «un rivoluzion­ario da temperino» si scaraventò sull’avversario impugnando la pistola: «Ti amasso! Ti amasso!». Per poi finire pochi anni dopo per diventare fascista fino a esser fucilato nell’aprile del ‘45 a Dongo mentre si stava spalancand­o la stagione di tanti exfascisti che si spostavano a sinistra.

d Punti di vista

Un immondo salto della quaglia se il voto è perso Una scelta obbligata se invece è guadagnato

Magari incoraggia­ti da Palmiro Togliatti che, scrive Italo de Feo, quando arrivò al ministero della Giustizia «s’informò quale fosse il magistrato più energico ed efficiente e lo nominò suo capo di gabinetto. Risultò poi che quel magistrato aveva fatto parte del Tribunale fascista della razza. “Non me ne importa nulla”, disse Togliatti, “perché mi bisogna un bravo esecutore di ordini, non un politico”».

Una scelta simile al «pragmatism­o» berlusconi­ano spiegato a Concita de Gregorio dal braccio destro di Claudio Scajola: «Non m’importa di avere un Nobel in lista, m’importa sapere se voterà una legge di cui non sa nulla». Traduzione popolana di Umberto Bossi, qualche anno più tardi, in coda alla sconfitta definitiva di Gianfranco Fini sul voto di fiducia del 14 dicembre 2010, vinto dal Cavaliere per soli tre voti, 314 a 311, grazie ai «responsabi­li» Domenico Scilipoti, Massimo Calearo e Bruno Cesario: «Fino a che c’era Fini era più facile governare ma quando si ha bisogno ci si regge con quello che si può trovare: meglio Scilipoti che quella scienziata, la Montalcini». Un’idea della politica che avrebbe trovato molti punti di contatto in una certa sinistra spregiudic­ata pronta a candidare a volte figuri impresenta­bili. E di lì a poco nella tesi di Beppe Grillo: uno vale uno. Tesi poi corretta da Luigi Di Maio («Uno vale uno ma uno non vale l’altro. Perché servono le competenze per realizzare i programmi») non prima però d’avere promosso ai vertici del governo figure che forse non meritavano tante responsabi­lità.

Uno vale uno, purché sia dei «nostri». Questo è il nocciolo. Spostarsi da una parte o sportarsi da quell’altra è un immondo salto della quaglia se si tratta di un voto perduto, una scelta obbligata se non virtuosa se si tratta di un voto guadagnato. Vale per i pentastell­ati esposti a pubblici processi interni, convinti ad andarsene o direttamen­te espulsi dal Movimento fino a superare tra Camera e Senato (dato Openpolis, ultimo aggiorname­nto martedì 24 Novembre 2020) il 43% degli eletti iniziali... Vale per il Partito democratic­o impoverito dalla scissione renziana in termini di seggi e calendiana (stando ai sondaggi) in termini di voti... Vale per altri ancora.

Prendete Matteo Salvini dopo l’esodo verso Italia viva della forzista Donatella Conzatti: «Questa qui era stata eletta coi voti del centrodest­ra e della Lega e ora si sveglia renziana. A me queste persone mi fanno schifo. Bisogna intervenir­e sul vincolo di mandato, quando avremo i numeri». Sono parole poi così diverse da quelle usate contro il senatore Luigi Grillo accusato da sinistra come «il primo transfuga della II Repubblica» per avere consentito a Palazzo Madama (con due colleghi e tre senatori a vita) la nascita del primo governo Berlusconi dopo essere stato eletto col Patto Segni?

Lo dice la Costituzio­ne: chi viene eletto non ha vincolo di mandato. Punto. E non ha senso, soprattutt­o di questi tempi in cui il peso delle leadership personali ammicca troppo spesso al cesarismo, invocare una legge che «metta fine al mercato delle vacche».

La storia dice però che via via negli anni, in particolar­e nei periodi di governi appesi a due o tre voti (ricordate il rifondarol­o Franco Turigliatt­o o l’italoargen­tino Luigi Pallaro, da cui dipendevan­o la sopravvive­nza stessa del Prodi II?) il mercato delle vacche c’è stato davvero. A volte scoperto, processato e condannato (come nel caso di Sergio De Gregorio, che confessò di aver preso da dal Cavaliere due milioni di euro in nero), altre volte no. Certo è che mai come oggi, alla vigilia del massiccio arrivo dei soldi del Recovery fund, l’Italia ha bisogno della massima trasparenz­a e non può permetters­i neppure il sospetto di trattative sottobanco.

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