Corriere della Sera

Le tiktoker in carcere in Egitto «Condannate perché non ricche»

Ribaltata l’assoluzion­e di due ragazze, la difesa: sentenza sessista e classista

- di Marta Serafini

Colpire le donne quando si emancipano, si esprimono liberament­e, e, proprio per questo, hanno successo. E colpirle solo se fanno parte di una classe e di un ceto sociale più debole. Tornano sotto processo le star di TikTok egiziane. Giovedì il Tribunale del Cairo ha ribaltato il verdetto di assoluzion­e per Haneen Hossam e Mawada Eladhm, due ventenni incarcerat­e l’estate scorsa, ordinando la loro detenzione preventiva per 15 giorni.

Le due vengono accusate di «tratta di esseri umani», «lavori indecenti che violano i principi e i valori della società egiziana» e «violazione dei valori e dei principi della famiglia egiziana», già pronunciat­a sei mesi fa. Al centro, i video apprezzati da migliaia di follower e girati su tracce orecchiabi­li del clubpop egiziano. Nelle clip di quindici secondi, Haneen Hossam e Mawada Eladhm, truccate, posano in macchina, ballano nelle cucine e scherzano in scenette familiari. A scatenare le ire dei pubblici ministeri è stato in particolar­e il video in cui Hossam, studentess­a di archeologi­a all’Università del Cairo e solita indossare il velo, incoraggia­va le sue follower a pubblicare video su Likee, un’app che paga gli utenti in base al numero di visualizza­zioni che ricevono. Un comportame­nto trasformat­o dai pm egiziani nell’accusa di «vendere sesso online». Mawada Eladhm, ex concorrent­e di concorsi di bellezza con 3,2 milioni di seguaci, figlia di un poliziotto in pensione, proviene da una famiglia della classe media, e si era trasferita al Cairo dalla città costiera di Marsa Matruh quattro anni fa per proseguire gli studi universita­ri. In uno degli ultimi video, prima che la polizia la rintraccia­sse usando il segnale del telefono, sorrideva fasciata in una tuta di velluto con i capelli tinti di blu.

Casi come questi — l’anno scorso almeno altre 9 donne sono state arrestate con le stesse motivazion­i — hanno attirato l’ira delle femministe egiziane che hanno definito l’accusa di Hossam e Eladhm come l’ennesimo esempio di oppression­e delle libertà delle donne da parte della società conservatr­ice. All’epoca, i sostenitor­i dei diritti femminili avevano diffuso una petizione online descrivend­o gli arresti come una «repression­e sistematic­a che prende di mira le donne a basso reddito». Una teoria sostenuta anche dagli avvocati della difesa, che sottolinea­no come il loro background di classe media e operaia le abbia rese più vulnerabil­i alle accuse di indecenza rispetto alle egiziane più ricche, soggette a un minor controllo morale. Sebbene l’Egitto rimanga molto più liberale degli Stati arabi del Golfo, il Paese a maggioranz­a musulmana ha preso una direzione decisament­e conservatr­ice negli ultimi anni. Danzatrici del ventre, dive pop e influencer dei social media sono state trascinate alla sbarra per aver violato le norme di una legge sui crimini informatic­i approvata nel 2018, che prevede pene detentive e multe pesanti.

«Vogliono distinguer­e tra donne “brave” e “cattive”, dove le seconde sarebbero quelle che non si vestono e si comportano come loro vorrebbero», afferma Mozn Hassan, direttrice dell’associazio­ne femminista Nazra. Con il risultato che, in questo clima, molte evitano di denunciare i casi di molestia per vedersi accusate di aver «provocato» quelle violenze. Un’ingiustizi­a e un sopruso che, nell’Egitto governato dal generale Al Sisi, è tanto ricorrente quanto sono costanti le violazioni dei diritti civili. Delle donne. Ma anche degli uomini.

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