E sullo sfondo la via istituzionale
Ipartiti sono al bivio tra reset e default, tra la possibilità cioè di rilanciarsi e il rischio di eclissarsi. La crisi li ha colti, tranne rare eccezioni, divisi al proprio interno e privi di spinta propulsiva.
Il mandato esplorativo al presidente della Camera è una sorta di «tempo supplementare» che Mattarella concede alle forze della maggioranza, ponendo di fatto Renzi davanti a una scelta: «Perché — come lui stesso riconosce — il Conte ter a novembre sarebbe stato un successo, mentre oggi somiglierebbe a una sconfitta. Un governo istituzionale rappresenterebbe invece un cambio di scenario. Non è una scelta facile, ma i margini ci sono». I margini li ha garantiti ieri il centrodestra, con la dichiarazione congiunta letta da Salvini e le parole rivolte al capo dello Stato dalla Meloni, convinta che questo Parlamento non sia in grado di esprimere un esecutivo forte e saldo, ma pronta a «valutare» un’altra soluzione se Mattarella la proponesse.
La leader di Fratelli d’Italia continuerà ovviamente a chiedere le urne fintanto che l’ipotesi del gabinetto istituzionale non si dovesse concretizzare. E c’è più di un motivo se l’opposizione attende di verificare l’eventuale cambio di scenario. Non solo perché il capo dello Stato ha spiegato che non darebbe il suo benestare a «governi rabberciati». Ma anche perché la delegazione del centrodestra è andata alle consultazioni dopo aver saputo che la sera prima ci sarebbe stato un contatto tra il Quirinale e l’ex presidente della Bce.
Draghi a Palazzo Chigi vorrebbe dire anzitutto che i partiti, in modo bipartisan, hanno compreso la profondità della crisi di sistema, significherebbe per loro accettare un esecutivo sostenuto dal
Parlamento ma preservato da manovre tattiche e di interdizione: sarebbe un gabinetto che si incaricherebbe di realizzare un programma di pochi punti, prima di riconsegnare il campo alla politica. Insomma Draghi, per dirla con Renzi, «sarebbe la safety car che rimette tutti in gioco». Ma per arrivare a una simile soluzione, sottolinea un esponente della Lega, «servirebbe la buona volontà anche dell’altro campo».
E dall’«altro campo» un autorevole dirigente del Pd ieri si è spinto a definire «importante l’apertura di Salvini» per un governo istituzionale. Per quanto i dem siano impegnati a ricompattare l’alleanza attorno a Conte, infatti, c’è la convinzione che questa soluzione possa «impantanarsi di nuovo fra qualche mese». Perciò Zingaretti sta insistendo su Forza Italia, così da rendere ininfluente Renzi in maggioranza. «Ma se l’operazione fallisse — spiegano nel Pd — tra i due mali non è escluso che si scelga il male minore». Cioè il governo istituzionale.
Il Nazareno formalmente non contempla ancora l’opzione B, ha compreso il senso del ragionamento svolto da Mattarella all’incontro di giovedì, quel «confido nel vostro ruolo», che è di equilibrio e ricerca di un compromesso tra gli alleati giallorossi. «Ma così — sospira uno dei maggiorenti democrat — ci stiamo logorando, stretti nella morsa tra Conte e Renzi». Un derby che finirebbe per essere vinto dall’uno o dall’altro. E il resto a far da spettatori.
Oltre a un problema di posizionamento, nel Pd c’è chi evidenzia in prospettiva un problema strategico: il Conte ter — senza una maggioranza allargata alle forze di centro — non garantirebbe i numeri per i due passaggi più importanti, cioè la riforma della legge elettorale e l’elezione del capo dello Stato. Questi erano (e restano) i capisaldi su cui è nata l’alleanza. E anche se Renzi garantisse la fiducia all’«avvocato del popolo», finendo così definitivamente nel cono d’ombra, non è detto che poi farebbe passare la proporzionale o un nome per la corsa al Quirinale. In più resterebbe l’incognita della lista Conte, che — come ha detto il pd Borghi — «ci farebbe fare la fine del Partito socialista francese». Si capisce, quindi, perché non viene scartata l’ipotesi del «male minore».