Corriere della Sera

La sfida delle toghe per la credibilit­à evitando trappole e verità di comodo

- di Giovanni Bianconi

Il primo presidente della Corte di cassazione Pietro Curzio ha scelto le parole di Rosario Livatino, il giudice ragazzino trucidato dalla mafia trent’anni fa: «Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Dopo di lui il procurator­e generale Giovanni Salvi ha evocato altre vittime del crimine organizzat­o e del terrorismo per sottolinea­re che «il coraggio di tanti colleghi ci dà oggi la forza per ricostruir­e la credibilit­à della magistratu­ra, duramente scossa».

C’è dunque un problema di autorevole­zza e fiducia perdute, e non ancora recuperate, da parte delle toghe, per stessa ammissione dei loro massimi rappresent­anti. Ai quali si aggiunge il vice-presidente del Csm David Ermini, quando invoca «un profondo cambiament­o di mentalità, una vera e propria rifondazio­ne morale», che mandi definitiva­mente in soffitta logiche di appartenen­za e pratiche spartitori­e.

Concetti e moniti già circolati nella stessa, solenne cerimonia di inaugurazi­one dell’anno giudiziari­o di un anno fa, dopo che era esploso il «caso Palamara». E se un anno dopo ritornano, significa che le reazioni e le contromoss­e non sono state sufficient­i a risolvere problemi e degenerazi­oni smascherat­e da quella vicenda; né a rimuoverne tutte le cause. Qualcosa è stato fatto, come rivendicat­o proprio da Salvi e Ermini, ma evidenteme­nte non abbastanza.

Luca Palamara, l’architetto delle nomine pilotate, è stato espulso (temporanea­mente, fino al giudizio definitivo) dall’ordine giudiziari­o, ma le tossine della malattia svelata dalle inchieste a suo carico (penali e disciplina­ri) sono rimaste in circolo. Rivitalizz­ate ora, sia pure con intenti sospettabi­li di strumental­ità, dalla presunta «operazione verità» del protagonis­ta: una ricostruzi­one molto parziale, fondata su episodi chirurgica­mente selezionat­i (in alcuni casi già smentiti dagli ex colleghi chiamati in causa), nonché su palesi dimentican­ze e omissioni.

Un tentativo di riscrivere la storia giudiziari­a dell’ultimo quarto di secolo, a cominciare dai processi a Silvio Berlusconi, attraverso un punto di vista molto particolar­e e politicame­nte orientato. E di colpire determinat­i bersagli; tra i quali, forse non a caso, anche il procurator­e Salvi e il vicepresid­ente Ermini.

A questa manovra s’è ribellata l’Associazio­ne nazionale magistrati, con la denuncia del neo-presidente Giuseppe Santalucia il quale — fatta salva la necessità di accertare le singole responsabi­lità per i singoli comportame­nti — replica «indignato» a «un affresco che reca un grave torto alla realtà», e rovescia le accuse: «Non si può tollerare che un’intera istituzion­e paghi oggi un prezzo elevatissi­mo in termini di sfiducia collettiva e di pericolosa delegittim­azione per l’opera di quanti hanno creduto di poterla utilizzare per personale tornaconto». Leggi Luca Palamara.

Tuttavia, per non trasformar­e questa forte denuncia in una scontata e poco efficace autodifesa d’ufficio, è necessario che pure il sindacato dei giudici si assuma l’onere di recuperare affidabili­tà e prestigio. Con comportame­nti e iniziative che segnino concreta discontinu­ità da certe pratiche. Insieme con gli organismi istituzion­ali, dal governo autonomo a chi esercita la giurisdizi­one. A tutti i livelli. Per evitare anche solo l’apparenza di un sistema immutato e immutabile.

Non è in gioco la conservazi­one di una casta e dei suoi privilegi, come pure sostenuto da qualcuno, bensì la tenuta di un apparato al quale sono affidate le vite dei cittadini che ogni giorno vengono chiamati o sono costretti a rivolgersi a un tribunale. È per loro, non per qualche categoria o potere, che le toghe devono ritornare a essere credibili.

In gioco sono le vite dei cittadini che devono rivolgersi a un tribunale

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