C’è un Mario per tutti La corsa tra i leader a identificarsi con il premier
Dall’europeismo, all’ambientalismo fino alle tasse: ogni tema è buono per rivendicare identità di vedute
«È uno dei noi», ha scandito Beppe Grillo dopo averlo incontrato per la prima volta e prima di iniziare l’opera di convincimento nei confronti della base del Movimento Cinque Stelle culminata nel sì della piattaforma Rousseau, non a caso scegliendo la formula più urlata nelle curve di uno stadio quando si accoglie un grande campione che ha un grande passato altrove (il coro è noto anche ai non appassionati di calcio, «uno di noooooi!» ripetuto più volte sulle note di Guantanamera, che pare fosse la canzone preferita di Fidel Castro). E come «noi» — e i «noi» adesso sono diventati altri, gli esponenti della Lega — «è contrario alla patrimoniale e ha escluso categoricamente qualsiasi aumento delle tasse», ha sottolineato Matteo Salvini. «Siamo noi che invochiamo questa soluzione da un anno», ha rivendicato Silvio Berlusconi. E si prosegue con l’«europeista come noi» del Pd, dell’«ambientalista come noi» delle associazioni ambientaliste, e via via fino ad arrivare a quella «folgorazione» attribuita persino a Giorgia Meloni, che pure sarà all’opposizione.
La reazione dei partiti e dei loro leader all’avvento dell’era Mario Draghi rovescia il famoso aforisma coniato da Giorgio Gaber all’epoca della discesa in campo di Silvio Berlusconi, quel «non temo Berlusconi in sé ma temo il Berlusconi in me» che rappresentò una specie di terza via tra il berlusconismo e l’antiberlusconismo più spinti. Oggi, a un quarto di secolo di distanza, non ci sono steccati da abbattere; al contrario, la paura diventa gaudio, la sovrapposizione tra «sé» e «me» rimane intatta e si arriva alla condizione in cui ciascuno dei leader politici sembra rivendicare una condizione magica in cui può dirsi felice «non tanto del Draghi in sé quanto del Draghi in me».
Con la sola imposizione di un «vediamo» (e delle sue varianti, «adesso vediamo», «sì, ok, ora vediamo», «vediamo, vediamo»), che ha opposto alle sollecitazioni programmatiche dei leader che sono sfilati davanti a lui nel corso delle consultazioni, il presidente del Consiglio incaricato ha lasciato un piccolo pezzo di sé alla politica perché la politica potesse usarlo come jolly. Chi lo seguiva all’epoca della presidenza della Banca centrale europea giura che lo schema sia lo stesso, praticamente identico, a quello che Draghi metteva in campo nei tempi di Francoforte: riunire i governatori delle banche nazionali, farli parlare tutti, un «vediamo» per ciascuno e poi via, nel chiuso di una stanza dove decideva da solo.
Un «metodo Draghi» che ha portato al «Draghi effect», quel tocco magico sui segni più delle Borse e sui segni meno dello spread, che finora ha ridotto a meno di un millimetro la distanza tra sé e persino le figure che gli erano più lontane.
Il «Draghi in me» ha folgorato Beppe Grillo, che non a caso l’ha definito «un grillino»; Matteo Salvini, che l’ha ascritto al sancta santorum dei tagliatori di tasse nonostante il no secco ricevuto sulla flat tax («Ma abbiamo parlato di un tavolo per valutare il taglio dell’Irpef, eh?»); persino Claudio Borghi, già esponente di prima fila della via leghista del ritorno alla Lira, ha salutato l’abbracciare il salvatore dell’euro come «la scelta più sovranista che potessimo fare» (tratto da un’intervista rilasciata al sito Tpi, che non a caso ha scelto la frase per farci il titolo).
Un’escalation talmente repentina e rumorosa che ha avuto l’effetto di mettere in sordina la posizione dell’unico partito grande nato e cresciuto europeista ed eurofilo al centouno per cento, e cioè il Partito democratico. Come scavalcato dal tasso di «sédraghismo» che in una settimana ha contagiato il resto dell’emiciclo parlamentare, al segretario Nicola Zingaretti non è bastato ripeterlo una ventina di volte (l’ultima ieri, alla direzione del partito) per essere preso sul serio: «Guardate che sarà difficile per gli altri coniugare le proprie esigenze con il programma del professor Draghi. Per noi no». Un esponente del Pd che preferisce rimanere anonimo, col fare sconsolato di chi non crede a quello che ha visto nell’ultima settimana, dice che «noi, che siamo ambientalisti ed europeisti, siamo parsi quasi i più sconsolati dell’arrivo di una persona che ha fatto le cose che pensiamo noi».
Grillo e Draghi, Salvini e Draghi, Berlusconi e Draghi e via via tutti gli altri. Il «Draghi in sé», nell’ottica dei leader, è stato superato da tantissimi «Draghi in me». Sembra la luna di miele che si evoca in politica quando si inaugura un governo. Stavolta, però, è arrivata anche prima che venisse formalizzato il matrimonio.