Flynt, il pornografo che divenne il simbolo della libertà di parola
Morto l’editore di «Hustler», sopravvisse a un attentato. Difese Clinton, accusò Trump
La vita oscena di Larry Flynt (1942-2021) è finita l’altra notte all’ospedale Cedars-Sinai di Los Angeles, per un attacco cardiaco, e verrà ricordata per due motivi, curiosamente non antitetici: Flynt è stato a suo modo visionario, il Walt Disney del porno, creatore di un impero di locali di spogliarello, sexy shop, riviste, film, tutto il sesso minuto per minuto arrivando a fatturare anche 150 milioni dollari l’anno quando era al massimo del suo potere (prima di internet).
Ma Flynt è stato anche uno dei più importanti sostenitori, in tribunale e non solo, attraverso i decenni, della libertà di stampa: nel 1988 una causa che gli aveva intentato un conservatorissimo pastore evangelico finì davanti alla Corte Suprema che decise — la sentenza «Hustler Magazine, Inc. v. Falwell» si studia in tutte le facoltà di legge americane — che i personaggi pubblici non possono aspettarsi di non essere criticati, anche duramente, anche in modo scurrile, dalla stampa. Non hanno cioè, per l’interesse pubblico, le stesse tutele di un privato cittadino. Una sentenza unanime che garantisce tuttora, e chissà ancora per quanto, il diritto di satira, e che protegge giornali, tv, radio. Tutto grazie al pornografo Flynt, alla sua tenacia, ai suoi milioni e ai suoi avvocati.
Origini umilissime nel Kentucky rurale, cinque mogli, incalcolabili amanti, un film hollywoodiano con Woody Harrelson e Courtney Love dedicato alla sua vita, tentativi inevitabilmente pecorecci di entrare in politica facendo una campagna elettorale per il governatorato della California al confronto della quale il «Partito dell’Amore» italiano di Moana Pozzi era una congrega di politologi («Il popolo della California è ormai maturo per avere un governatore sudicione» lo slogan: quell’anno peraltro fu eletto Arnold Schwarzenegger), Flynt passò decenni a rimestare nel torbido dell’ipocrisia americana, mettendo taglie mediatiche sulla testa dei politici che predicavano castità e sobrietà e razzolavano male, difendendo Bill Clinton (ovviamente) durante l’impeachment per i rapporti con la stagista Monica Lewinsky, offrendo ricompense a chi gli avesse portato prove di scandali trumpiani.
Ebbe tempo, negli anni del crepuscolo, con l’impero editoriale ammaccato — mal comune di stampa e cinema, non soltanto suo — da internet e pirateria e crisi della stampa, di spendersi per un’ultima nobile causa, chiedendo (invano) che fosse risparmiata l’esecuzione all’uomo che nel 1978 gli aveva sparato, costringendolo alla sedia a rotelle (placcata d’oro) per il resto della vita.
Joseph Paul Franklin, serial killer neonazista, aveva visto su uno dei giornaletti di Flynt un accoppiamento tra un nero e una bianca, per lui inconcepibile, e aveva deciso di ucciderlo. Flynt, colpito all’addome, si salvò per miracolo. Nel 2013, quando Franklin si trovò a poche settimane dall’esecuzione (era stato condannato per un omicidio, non per l’attacco a Flynt) il pornografo più famoso del mondo stupì ancora tutti, per l’ultima volta. Con una lettera aperta: «Se il problema è la garanzia di una pena severa, passare tutta la vita dentro una cella di 1 metro x 2 è assai più duro da sopportare di una rapida iniezione letale; se il problema è il costo per il contribuente, un’esecuzione costa molto di più allo Stato di una condanna all’ergastolo a causa del lungo e tortuoso percorso delle procedure d’appello. Ho avuto molti anni di tempo, bloccato sulla mia carrozzella, per pensare a questo argomento e ho concluso che il solo fattore che sta dietro al supporto per la pena di morte è la sete di vendetta, non la giustizia. E ritengo che uno Stato che proibisce ai suoi cittadini di ammazzarsi l’un l’altro, dovrebbe restare fuori dal business di ammazzare le persone». Per una questione di decenza.