«È tempo di parità per il cognome dei figli»
La Consulta e il sistema di attribuzione di quello paterno «Retaggio di una concezione patriarcale della famiglia»
Basta con il «retaggio patriarcale» di assegnare ai neonati il cognome paterno, eredità di «una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Si impone una soluzione legislativa. Lo sostiene la Consulta nel sollevare, di fronte a se stessa, questo quesito: «Può l’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre?». Nel farlo la Corte Costituzionale rivolge un nuovo, implicito, invito al legislatore affinché intervenga in materia. Ultimo monito di una serie iniziata nel 2006. Invano.
Ma stavolta potrebbe essere quello definitivo. Perché i «giudici delle leggi» affronteranno la questione generale del patronimico automatico, allargando il punto di partenza contenuto nella richiesta del Tribunale di Bolzano di valutare l’incostituzionalità dell’articolo 262 primo comma del codice civile solo in quanto non consente, in caso di accordo tra i genitori, di trasmettere ai figli esclusivamente il cognome materno. Per l’appunto la scelta di due genitori altoatesini che in nome del principio di parità volevano per il loro bebè (nato fuori dal matrimonio, ma il principio è valido per tutti) il cognome della donna.
Stavolta la Corte non sembra intenzionata ad aspettare. Se il Parlamento non avrà dato, fino ad allora, una chiara indicazione, sarà costretta a decidere. Il conto alla rovescia quindi è scattato e il legislatore avrà circa sei mesi di tempo per intervenire. Del resto, nella motivazione resa nota ieri dell’ordinanza numero 18 del 14 gennaio scorso (relatore il vicepresidente della Corte, Giuliano Amato), gli stessi giudici ricordano al legislatore, con una velata tirata d’orecchi, che la questione è ormai datata. Già una sentenza del 2014 della Corte di Strasburgo «ha ritenuto che la rigidità del sistema italiano, che fa prevalere il cognome paterno e nega rilievo a una diversa volontà concordemente espressa dai genitori, costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, determinando una discriminazione ingiustificata tra i genitori». La Corte evidenzia come sia «stato osservato sin da epoca risalente che la prevalenza attribuita al ramo paterno nella trasmissione del cognome non può ritenersi giustificata dall’esigenza di salvaguardia dell’unità familiare, poiché è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità». E, «viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», in quanto l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità». E malgrado la decisione politica che ora concede di poter aggiungere il cognome materno al patronimico, la questione è ancora irrisolta.
Cosa fare? La via la Corte la indica già quando sottolinea la «necessità, costituzionalmente imposta dagli articoli 2 e 3, di garantire l’effettiva parità dei genitori, la pienezza dell’identità personale del figlio e di salvaguardare l’unità della famiglia». Tutto ciò, concludono i giudici, «porta a dubitare della legittimità costituzionale della disciplina dell’automatica acquisizione del solo patronimico». vuole può dare il proprio cognome ai figli. Da noi è costretta a sotterfugi».