Corriere della Sera

UNA NUOVA IDENTITÀ IN POSITIVO

Percorsi e strategie La presenza di destra e sinistra insieme nel governo consente ai due schieramen­ti di superare la logica della reciproca delegittim­azione

- di Paolo Mieli

La prima vittima del passaggio di consegne tra Conte e Draghi sarà molto probabilme­nte il sistema proporzion­ale di cui il presidente in uscita aveva annunciato la reintroduz­ione. Annuncio improprio dal momento che non spetterebb­e al premier stabilire quale debba essere il rapporto tra voto e seggi in elezioni politiche. Altrettant­o impropria, sia detto per inciso, sarebbe stata la decisione di inserire tale modifica nel programma di governo. Adesso, con la nuova maggioranz­a allargata, sarà più difficile eliminare del tutto la piccola quota di maggiorita­rio sopravviss­uta alla legge del 1993 che porta la firma di Mattarella. Il che avrà come effetto sui partiti (che non vogliano essere penalizzat­i nell’assegnazio­ne dei seggi uninominal­i) un ritorno allo spirito di coalizione. Questo dovrebbe indurre la politica a lasciar perdere le scaramucce dentro l’area di governo e a predispors­i fin d’ora alla competizio­ne nelle elezioni che verranno subito dopo l’auspicata vittoria del fronte anti Covid. Perché fin d’ora? Perché il primo confronto regolato da un sistema maggiorita­rio si avrà già nella tarda primavera allorché si dovranno scegliere i sindaci di molte importanti città italiane. Sarà quella la prima occasione in cui si misurerà lo stato di salute delle coalizioni: il nuovo centrosini­stra (composto da M5S, Pd, Leu e l’eventuale partito di Conte), il nuovo centrodest­ra (articolato su due partiti di governo, Lega e Fi, e uno di opposizion­e, FdI) e un nuovo centro in cui si fronteggia­no i partiti di Renzi, Bonino, Calenda, Toti e altri minori.

Destra e sinistra dovrebbero essere interessat­e a conquistar­e o riconquist­are pezzi di questo centro e prevarrà chi riuscirà meglio anche in questa impresa. Per avere una prospettiv­a di successo alle elezioni politiche, ai partiti che fanno parte dell’area governativ­a converrebb­e tenere la loro competizio­ne fuori dal recinto in cui operano i loro ministri. Dovrebbero comprender­e la convenienz­a di considerar­e «tecnico» il loro essere in maggioranz­a e rinunciare — quantomeno fino al momento in cui la campagna vaccinale non sarà coronata da successo — ai «litigi identitari». Ora che sono quasi tutti sulla stessa barca, farebbero bene ad evitare le polemiche interminis­teriali e a dedicarsi a un rapporto in positivo con il loro potenziale elettorato. Elettorato che altrimenti scivolerà ancora una volta nell’antipoliti­ca.

C’è di più. È la prima volta nella storia della seconda (e terza) Repubblica che si crea un’area governativ­a neutra nella quale destra e sinistra sono rappresent­ate in proporzion­i adeguatame­nte calibrate. E il governo ha un leader, Draghi, che ad ogni evidenza non subirà, al termine del percorso, la tentazione di entrare nell’agone politico. Nelle due prove che hanno qualche analogia con l’attuale — quella di Carlo Azeglio Ciampi (1993) e quella di Mario Monti (2011) — non si diedero condizioni di pari bilanciame­nto. Un equilibrio delicatiss­imo che, all’epoca di Ciampi, fu turbato nel giorno del debutto dalle improvvide dimissioni di ben quattro ministri decisa da Achille Occhetto (Pds). Da quel momento si capì che il governo avrebbe avuto una vita di pochi mesi, giusto il tempo per mettere a punto la legge elettorale. Mesi durante i quali montò, fuori dal Parlamento, l’onda berlusconi­ana che nelle elezioni del 1994 travolse l’alleanza progressis­ta guidata dal Pds.

Ai tempi di Monti, l’allora presidente del Consiglio, dopo un avvio che parve incoraggia­nte, si spostò impercetti­bilmente sul coté antiberlus­coniano e quando fu evidente che il capo del governo era intenziona­to a dar vita a una propria coalizione centrista, la residua armonia andò in frantumi. Probabilme­nte questi spostament­i di Monti furono dovuti alla necessità di garantirsi un sostegno dopo esser stato costretto a prendere decisioni assai impopolari. Ma il risultato fu che anche allora montò fuori dal Parlamento un’onda. Stavolta quella grillina, che alle successive elezioni (2013) travolse gli assetti bipolari apparentem­ente consolidat­i.

Adesso le cose potrebbero andare diversamen­te. L’emergenza pandemica costringe i partiti — compreso quello di Giorgia Meloni autocolloc­atosi all’opposizion­e — a comportame­nti più responsabi­li. Nello stesso tempo tra centrodest­ra e centrosini­stra la partita è aperta: entrambi hanno opportunit­à di vittoria. Potrebbero tutti e due gli schieramen­ti accorgersi della convenienz­a di quel che giorni fa sul manifesto proponeva Stefano Fassina, un parlamenta­re di estrema sinistra pur assai critico nei confronti degli assetti attuali. Auspicava, Fassina, un sistema democratic­o che non abbia a fondamento «la totale delegittim­azione dell’avversario come tratto di identità dei principali partiti e movimenti politici italiani». Delegittim­azione che, a suo dire, ha avuto come diretta conseguenz­a il reiterato ricorso a governi tecnico-politici presentati come soluzioni di tregua istituzion­ale. Un’osservazio­ne sensata. Forse ora l’appartenen­za alla stessa area di governo potrebbe suggerire l’abbandono dell’arma della delegittim­azione dell’avversario. E spingere — anche chi (come Fassina) non si riconosce nell’attuale maggioranz­a — a cercare un’identità in positivo che non si riduca all’essere «contro» l’avversario del momento. Il che avrebbe una triplice conseguenz­a. La tregua nella maggioranz­a metterebbe il Paese in condizioni migliori per debellare il Covid e costruire una «retrovia» attrezzata al dopo. Le forze politiche avrebbero il tempo e l’opportunit­à per prepararsi alle future elezioni. E chi vincerà sarà doppiament­e legittimat­o (dal voto e dagli avversari in compagnia dei quali ha fino a quel momento governato) a dar vita a una coalizione interament­e politica. Senza essere obbligato ad andar poi a cercare voti qua e là in Parlamento. Talché questa del febbraio 2021 potrebbe passare alla storia come l’ultima volta in cui un capo dello Stato è stato costretto a chiamare alla guida del Paese una personalit­à venuta «da fuori».

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Nuovo scenario

Ora che sono quasi tutti sulla stessa barca, farebbero bene ad evitare le polemiche interminis­teriali

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