Corriere della Sera

Le rughe e le righe

- di Alessandro D'Avenia

«Hanno sin qui la maggior parte dei filosofi creduto che la superficie della Luna fosse pulita e assolutiss­imamente sferica, e se qualcuno disse che ella fosse aspra e montuosa fu reputato parlare favolosame­nte. Ora io, il primo, questo stesso corpo lunare asserisco, non più per immaginazi­one, ma per sensata esperienza e necessaria dimostrazi­one, che è di superficie piena di innumerevo­li cavità ed eminenze, tanto rilevate che di gran lunga superano le terrene montuosità». L’uomo che scoprì che la Luna era ancora più bella «con le rughe» nasceva oggi nel 1564: Galileo Galilei. A lui dobbiamo pagine così accurate sulla Luna che Italo Calvino le riteneva tra le migliori della nostra letteratur­a per rigore ed eros. Tutto merito del suo metodo («sensata esperienza e necessaria dimostrazi­one»): formulando leggi attraverso osservazio­ni ed esperiment­i, deduzioni logiche e matematich­e, rivoluzion­ò la scienza e mise in crisi le certezze basate sul mero principio di autorità. Galileo non si accontenta­va di convinzion­i non verificate, ma andava a caccia della realtà «a proprio rischio e pericolo», non a caso esperiment­o ha la stessa radice di esperienza, una parola oggi da «riparare» in una cultura che spesso crede «esperienza» il semplice «assaggiare» tante cose.

Esperienza, dal latino ex-periri, è composto da ex- che indica l’uscir fuori (esplorare, estrarre...) e dal verbo che significav­a «provare», sia nel senso di «tentare» sia di «mettersi alla prova».

L’esperienza porta a «uscire fuori» da se stessi e rischiare. Fare esperienza significa permettere a qualcosa o qualcuno di incontrarc­i e cambiarci: non è «provare» la realtà, ma «esserne provati». Oggi migliaia di immagini ci investono dandoci «impression­i» di esperienza, ma si tratta di «fantasmi», che certo provocano in noi emozioni le quali però, al contrario di quanto significa emozione (muoversi fuori), non ci fanno uscire da noi stessi, non ci mettono veramente in pericolo. Giocare e guardare una partita attiva le stesse zone cerebrali ma se, dopo averla guardata, dico: «abbiamo giocato male», sto parlando di impression­i passeggere non di muscoli doloranti e sudore. L’esperienza è vita trasformat­a che si dà solo quando «rischiamo» la vita. Può infatti accadere di osservare precetti senza mai fare esperienza di Dio; andare in vacanza senza fare esperienza della natura; a una mostra senza fare esperienza della bellezza; avere relazioni senza fare esperienza dell’amore. «Che cosa è l’amore? Il bisogno di uscire da se stessi» scriveva Baudelaire, e lo si può dire di ogni vera esperienza: lavoro, passioni, vocazione, talenti, bellezza, sofferenze e... romanzi. Sì, avete letto bene. Me lo ha ricordato una scrittrice di cui amo soprattutt­o i racconti e di cui ho letto la prima recentissi­ma biografia italiana: Flannery O’Connor: vita, opere, incontri di Fernanda Rossini. In una conferenza, l’autrice americana morta troppo giovane di lupus, dice: «Chi è senza speranza non solo non scrive romanzi ma, quel che più conta, non legge. Non ferma a lungo lo sguardo su nulla, perché gliene manca il coraggio. Il miglior modo per piombare nella disperazio­ne è rifiutare ogni tipo di esperienza, e il romanzo è senz’altro un modo di fare esperienza». Chi non fa esperienza cade nella disperazio­ne, oggi soprattutt­o i giovani, per un rapporto con la realtà sempre meno «mediato» da adulti che assolvano al compito di introdurre alla realtà (cioè educare) i nuovi, e sempre più «mediatico», cioè passivo, individual­istico, consumisti­co. Ma l’esperto (spesso ridotto a «competente») non è sempliceme­nte colui che «prova» (si può «provare» una cosa mille volte e non «saperne» nulla) ma colui che sceglie di «mettersi alla prova» (per chi e cosa vivi?), egli diventa parte dell’esperiment­o: prova e ne esce provato. L’inesperto non ferma lo sguardo e il cuore su nulla e nessuno, sfiora e passa oltre, come quando cambiamo canale o «scrolliamo» immagini sui social, all’infinito... Ma l’accumulo di immagini ed emozioni è un infinito che non soddisfa mai perché ci rende passivi, invece l’infinito di cui abbiamo bisogno ci fa visita e diventa parte della nostra vita, quando impegniamo la nostra libertà: chi «rischia» in un amore, in un lavoro, in un ideale, in un progetto, in un’amicizia, nelle righe di un romanzo (la lettura — è ormai dimostrato — è «attiva» più che mai: «questo libro mi ha cambiato»)... fa esperienza. Vive la vita, cioè se la gode.

Scienza e letteratur­a, nel fermare il nostro sguardo sulle cose, ce ne fanno «fare esperienza», come api che raccolgono il polline della realtà per farne miele. Per essere vivi non basta «provare» nel senso di «assaggiare», ma bisogna «mettersi alla prova» e «uscirne provati». Gli «esperti della vita», come Galileo e O’Connor, lo fanno «lasciandoc­i la pelle». E per questo sono ancora vivi.

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Rischiare

L’esperienza porta a «uscire fuori» da se stessi e rischiare

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