Corriere della Sera

LA PRESCRIZIO­NE NON È UN PRIVILEGIO PER POCHI

- di Caterina Malavenda

Caro direttore, ogni opinione sulla prescrizio­ne è rispettabi­le, più o meno condivisib­ile e certo utile a fare un po’ di chiarezza su luci ed ombre di un istituto, diventato ormai argomento divisivo e che appare, a seconda della prospettiv­a, una sconfitta dello Stato, perché non è riuscito ad assolvere o a condannare l’imputato ed a stabilire la verità processual­e; o il rimedio per porre fine ad un iter, talmente lungo, da apparire esso stesso ingiusto e, dunque, eccessivam­ente penalizzan­te per l’imputato, che ha diritto ad un verdetto definitivo, in un tempo ragionevol­e, ad oggi fissato in un massimo di sei anni, un termine, superato il quale egli può chiedere di essere risarcito, ma che non impedisce che il processo duri di più.

Ed è giusto che la politica si interroghi sul modo più equo per mitigare quella sconfitta, senza trascurare le aspettativ­e di chi attende che il suo processo abbia termine; e trovi, alfine, un accettabil­e punto di equilibrio.

Risulta, però, intollerab­ile l’idea, piuttosto diffusa e fatta propria anche da Gian Carlo Caselli sul Corriere, che la prescrizio­ne sia un beneficio, riservato ai ricchi ed ai potenti, solo perché possono permetters­i le parcelle di avvocati, che diventano, perciò e solo per questo, agguerriti e, dunque, capaci essi soli di trovare e sfruttare eccezioni, favorite da un codice traballant­e, fino a garantire ai propri clienti, ovviamente colpevoli, un risultato che non meritano, ma che hanno potuto conseguire, pagandoli profumatam­ente.

È questa una tesi che umilia, soprattutt­o, i tanti avvocati che assistono persone comuni, che saldano le loro parcelle modeste, ma che, pur non agguerriti, visto che sono pagati poco, sono in grado anch’essi di individuar­e, quando la vedono, quella violazione di legge — questo essendo il solo presuppost­o delle eccezioni processual­i — che lede i diritti del loro assistito e che, ove accolta dal giudice, può finire talvolta per ritardare il corso del processo, anche fino all’avvento della prescrizio­ne, come si dice e sembra un’eresia, per ragioni, di giustizia.

La prescrizio­ne, dunque, non è un privilegio di pochi, ma è uguale per tutti e può maturare, quale conseguenz­a non diretta, ma inevitabil­e, quando un legale, che fa con dignità e capacità il suo mestiere, al di là della sua parcella, si accorge di un errore, che di norma è del suo contraddit­tore naturale, il Pm, e solleva la questione.

Certo, non è solo il tempo che occorrerà al giudice per risolverla a pregiudica­re l’epilogo fisiologic­o del processo, che è ritardato soprattutt­o dallo svolgiment­o delle indagini, senza termini perentori che ne impongano la fine; o dagli anni che passano, fra la fine delle indagini e l’inizio del processo, ma, sorprender­à qualcuno, non dalla richiesta di rinvio dell’avvocato, per improrogab­ili impegni o se l’imputato sta male, perché in quel caso il decorso della prescrizio­ne si interrompe, per riprendere alla ripresa del processo.

E se, come dice un proverbio cinese, «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito», bisogna domandarsi se l’attenzione sia davvero focalizzat­a sulla luna o, non piuttosto, sul dito.

Ma la tesi della prescrizio­ne, come privilegio non è gratifican­te neppure per gli avvocati dei ricchi e potenti — chissà poi se esiste un albo apposito sul quale cercarli — che sarebbero pagati solo per sfruttare il tempo, nell’attesa che faccia il suo corso, seppellend­o la verità e graziando il colpevole; e non piuttosto, quasi che siano incapaci di farlo, soprattutt­o per far assolvere i loro clienti, perché anche loro perbacco si imbatteran­no pure in qualche galantuomo, che sia anche innocente.

Dunque, se davvero il problema è l’ineguaglia­nza da censo e l’avvocato lo strumento per attuarla, esiste allora una sola strada percorribi­le, l’abolizione della difesa per gli imputati ricchi e potenti e, va da sé, certamente colpevoli.

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La polemica

È intollerab­ile l’idea che la norma garantisca un beneficio riservato a ricchi e potenti

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