LA PRESCRIZIONE NON È UN PRIVILEGIO PER POCHI
Caro direttore, ogni opinione sulla prescrizione è rispettabile, più o meno condivisibile e certo utile a fare un po’ di chiarezza su luci ed ombre di un istituto, diventato ormai argomento divisivo e che appare, a seconda della prospettiva, una sconfitta dello Stato, perché non è riuscito ad assolvere o a condannare l’imputato ed a stabilire la verità processuale; o il rimedio per porre fine ad un iter, talmente lungo, da apparire esso stesso ingiusto e, dunque, eccessivamente penalizzante per l’imputato, che ha diritto ad un verdetto definitivo, in un tempo ragionevole, ad oggi fissato in un massimo di sei anni, un termine, superato il quale egli può chiedere di essere risarcito, ma che non impedisce che il processo duri di più.
Ed è giusto che la politica si interroghi sul modo più equo per mitigare quella sconfitta, senza trascurare le aspettative di chi attende che il suo processo abbia termine; e trovi, alfine, un accettabile punto di equilibrio.
Risulta, però, intollerabile l’idea, piuttosto diffusa e fatta propria anche da Gian Carlo Caselli sul Corriere, che la prescrizione sia un beneficio, riservato ai ricchi ed ai potenti, solo perché possono permettersi le parcelle di avvocati, che diventano, perciò e solo per questo, agguerriti e, dunque, capaci essi soli di trovare e sfruttare eccezioni, favorite da un codice traballante, fino a garantire ai propri clienti, ovviamente colpevoli, un risultato che non meritano, ma che hanno potuto conseguire, pagandoli profumatamente.
È questa una tesi che umilia, soprattutto, i tanti avvocati che assistono persone comuni, che saldano le loro parcelle modeste, ma che, pur non agguerriti, visto che sono pagati poco, sono in grado anch’essi di individuare, quando la vedono, quella violazione di legge — questo essendo il solo presupposto delle eccezioni processuali — che lede i diritti del loro assistito e che, ove accolta dal giudice, può finire talvolta per ritardare il corso del processo, anche fino all’avvento della prescrizione, come si dice e sembra un’eresia, per ragioni, di giustizia.
La prescrizione, dunque, non è un privilegio di pochi, ma è uguale per tutti e può maturare, quale conseguenza non diretta, ma inevitabile, quando un legale, che fa con dignità e capacità il suo mestiere, al di là della sua parcella, si accorge di un errore, che di norma è del suo contraddittore naturale, il Pm, e solleva la questione.
Certo, non è solo il tempo che occorrerà al giudice per risolverla a pregiudicare l’epilogo fisiologico del processo, che è ritardato soprattutto dallo svolgimento delle indagini, senza termini perentori che ne impongano la fine; o dagli anni che passano, fra la fine delle indagini e l’inizio del processo, ma, sorprenderà qualcuno, non dalla richiesta di rinvio dell’avvocato, per improrogabili impegni o se l’imputato sta male, perché in quel caso il decorso della prescrizione si interrompe, per riprendere alla ripresa del processo.
E se, come dice un proverbio cinese, «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito», bisogna domandarsi se l’attenzione sia davvero focalizzata sulla luna o, non piuttosto, sul dito.
Ma la tesi della prescrizione, come privilegio non è gratificante neppure per gli avvocati dei ricchi e potenti — chissà poi se esiste un albo apposito sul quale cercarli — che sarebbero pagati solo per sfruttare il tempo, nell’attesa che faccia il suo corso, seppellendo la verità e graziando il colpevole; e non piuttosto, quasi che siano incapaci di farlo, soprattutto per far assolvere i loro clienti, perché anche loro perbacco si imbatteranno pure in qualche galantuomo, che sia anche innocente.
Dunque, se davvero il problema è l’ineguaglianza da censo e l’avvocato lo strumento per attuarla, esiste allora una sola strada percorribile, l’abolizione della difesa per gli imputati ricchi e potenti e, va da sé, certamente colpevoli.
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La polemica
È intollerabile l’idea che la norma garantisca un beneficio riservato a ricchi e potenti