I catalani irriducibili
Il rebus senza facili soluzioni di una regione irriducibile
Li puoi manganellare, li puoi impoverire spostando a Madrid o meglio ad Andorra le sedi delle multinazionali, puoi tentare di farli ragionare; ma alla fine i catalani votano per l’indipendenza.
Poi, certo, la società è divisa, anzi polarizzata: la novità delle elezioni di domenica scorsa (oltre al balzo in avanti del partito socialista) è l’avanzata delle estreme. La Cup, secessionisti anticapitalisti, autoproclamati eredi degli anarchici che negli anni ‘30 presero il potere, dipinsero i tram di rosso e nero, si proposero di incoraggiare la rivoluzione sessuale vietando la prostituzione e introducendo la tassa sulla verginità, passano da 4 a 9 seggi. Vox, il movimento di destra nazionalista fondato da Santiago Abascal, basco perseguitato dall’Eta, sale da zero a 11 seggi, umiliando la destra moderata dei popolari. In controtendenza col resto del mondo, in Catalogna il centro scompare: Ciutatans, la versione locale di Ciudadanos, che appena tre anni fa era il primo partito, crolla da 36 seggi a 6. Nonostante il fondatore Albert Rivera fosse di Barcellona, anzi di Barceloneta, i Cittadini erano fermamente contrari all’indipendenza: i loro voti sono andati per due terzi a sinistra, verso i socialisti, e per un terzo a destra, appunto verso Vox.
Il presidente del governo nazionale, Pedro Sánchez, non è insoddisfatto. Il partito socialista, che qui non si chiama Psoe ma Psc, torna a essere il più votato, vent’anni dopo l’era di Pasqual Maragall, il sindaco delle Olimpiadi poi eletto presidente della Catalogna. Stavolta il leader locale è Salvador Illa, divenuto celebre come ministro della Sanità, in seguito al paradosso del Covid: nonostante la gestione della pandemia in Spagna sia stata tutt’altro che brillante, molti elettori si sono comunque sentiti protetti, e in ogni caso il rassicurante volto occhialuto di Illa è diventato popolare. Nel fronte indipendentista c’è stato il sorpasso: Erc, Esquerra Republicana, il cui capo Oriol Junqueras è in libertà vigilata, ha superato Junts per Catalunya, il cui leader Carles Puigdemont è in esilio a Bruxelles. Considerando anche la Cup, i separatisti hanno la maggioranza sia dei voti, sia dei seggi.
Erc è un partito fondato nel 1931 da Lluís Companys — il primo a proclamare l’indipendenza della Catalogna: fuggito in Francia dopo la guerra civile, catturato dalla Gestapo, consegnato a Franco, fucilato, sepolto sul Montjuic in una tomba in mezzo a un laghetto degna di re Artù — e rifondato settant’anni dopo da Josep Carod-Rovira, uno che si vantava di non aver mai parlato spagnolo in vita sua (le interviste le dava in francese). È insomma una forza che non si riconosce nel Regno spagnolo, fin dal nome: Sinistra repubblicana di Catalogna. Paradossalmente, però, è considerata l’ala ragionevole degli indipendentisti. Junts per Catalunya è invece l’erede del partito moderato e autonomista di Jordi Pujol, l’Andreotti catalano, che finì in galera ai tempi di Franco, vinse le prime elezioni libere, arricchì per trent’anni la Catalogna e già che c’era pure la propria famiglia (almeno 70 milioni di euro al sicuro nella suddetta Andorra, paradiso fiscale). I suoi successori hanno scelto l’indipendenza, e hanno verso il governo di Sánchez un atteggiamento più duro rispetto a quello di Erc.
Ora le strade per dare un governo alla Catalogna sono due. O un esecutivo indipendentista (ma governare con il sostegno degli anarcoidi della Cup non è semplice); oppure un patto di sinistra tra socialisti, la versione locale di Podemos e i separatisti di Erc. Tutti insieme potrebbero portare avanti il dialogo con Madrid, e ottenere se non l’amnistia almeno l’indulto per quelli che a Barcellona sono considerati «prigionieri politici» ma che il tribunale supremo di Madrid ha condannato per sedizione e tradimento. Però alla vigilia del voto Erc e Junts hanno giurato col sangue che mai avrebbero fatto accordi con forze anti-separatiste, socialisti compresi. O si tradisce il patto, seguendo la via della trattativa; o si va avanti sulla strada della secessione, che probabilmente non verrà mai, ma comporta traumi politici, economici, sociali. «Questo voto conferma che la gente è stanca», spiega Enric Juliana, vicedirettore de La Vanguardia, il quotidiano di Barcellona. «L’affluenza è diminuita, e non solo a causa del Covid. Gli indipendentisti hanno perso 600 mila voti in cifra assoluta. Sono costretti a mettersi d’accordo tra loro, perché se si tornasse a votare l’elettorato d’ordine punterebbe ancora più decisamente sui socialisti».
Una cosa è certa: ancora una volta, il voto popolare non è stata la soluzione che le élites di Madrid e di Barcellona auspicavano. La Catalogna dei primi Duemila stava volando. Ha pagato un prezzo altissimo al separatismo, alla crisi economica, alla pandemia, di cui è stata una degli epicentri europei. Domenica ha votato poco più della metà degli aventi diritto; però ha votato, in condizioni drammatiche, con gli osservatori in tuta e visiera per far partecipare negli orari riservati pure i malati di Covid. Insomma i catalani si confermano irriducibili, come al tempo dell’assedio del 1715, della guerra civile, degli anni più duri del franchismo. La storia dirà se è pertinacia oppure ostinazione.