Corriere della Sera

IL FUORILEGGE ACCLAMATO

DOPO PORTA PIA IL BRIGANTE GASBARRONE DIVENNE UN MITO PERCHÉ OSTILE AL PAPA

- di Paolo Mieli

Un saggio di Enzo Ciconte, edito da Carocci, su crimine e corruzione a Roma. La fine dello Stato pontificio non migliorò la situazione: venne presto alla luce una malavita aggressiva e poi cominciò la stagione degli scandali bancari

Roma fu capitale del malcostume già nei tempi antichi, duemila anni prima del 1870. Carlo Alberto Brioschi nella sua Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri (Tea) anni fa raccontò sinteticam­ente ma con grande precisione come, assieme a Babilonia e ai più importanti insediamen­ti urbani dell’antica Grecia, la città eterna divenne ben presto un centro del malaffare. Riferì, la Breve storia della corruzione, che Plutarco aveva spiegato come e perché il nome del triumviro Marco Licinio Crasso — proconsole di Siria ucciso dai Parti — divenne sinonimo «di una ricchezza sproposita­ta e dalle origini sospette». Di come Sallustio riferì che ai suoi tempi, tra gli uomini di potere, «ognuno afferrava quel che poteva, strappava, rubava… Lo Stato veniva governato dall’arbitrio di pochi che avevano in mano il tesoro, le province, le cariche, le glorie e i trionfi». Di come lo stesso Sallustio scandalizz­ò i contempora­nei per i suoi arricchime­nti illeciti e dovette ricorrere alla protezione di Cesare per difendersi dai giudici che lo avevano preso di mira. Di come persino un grande fustigator­e dei vizi altrui, Catone il Censore, subì oltre quaranta processi per corruzione.

Riprese, Brioschi, i nomignoli affibbiati da Plauto — nelle sue cento e passa commedie — a questo o quel personaggi­o pubblico: «Rincorri-pasto», «Strangola-vino», «Scopa-tinello», «Ammira-piatto», «Lecca-pentole», «Caccia-pranzo», «M’invito-da-me». Spiegò come Cicerone — che pure aveva accusato il governator­e della Sicilia Verre di essere un tangentocr­ate incallito — avesse avuto rapporti con gli stessi ambienti corrotti contro cui aveva puntato l’indice. Tito Livio tenne a ricordare che Lucio Scipione Asiatico, fratello di Scipione l’Africano, fu accusato di aver addirittur­a «trattato» in cambio di denaro un trattato con il re siriano Antioco. Per far ottenere ad Antioco «una pace a migliori condizioni», scrisse Tito Livio, Scipione avrebbe ricevuto seimila libbre d’oro e quattrocen­tottanta d’argento.

La corruzione scorreva come il sangue nelle vene della città. Che ad un certo punto smise financo di vergognars­ene. A Roma, sostenne Tacito, «confluisco­no tutti i peccati e tutti i vizi per esservi glorificat­i». Ed è stato così per secoli fino al tempo dei Papi. Poi la breccia di Porta Pia segnò la fine del potere temporale della Chiesa. In molti sperarono che con Roma capitale d’Italia le cose, almeno in parte, sarebbero cambiate. Quantomeno sotto il profilo simbolico. Ma non fu così. Anzi.

Per spiegare quel che accadde, proprio sotto il profilo simbolico, occorre tornare a qualche anno prima di quel fatidico 1870. Il 17 aprile 1831 arrivò a Civitavecc­hia un console assai particolar­e. Si chiamava Marie-Henri Beyle ma era già conosciuto con il nome di Stendhal. Lo scrittore, calcola Leonardo Sciascia in L’adorabile Stendhal (Adelphi), aveva all’epoca quarantott­o anni. In gioventù era stato colto da grande passione per Bonaparte, poi, dopo aver patito — negli anni successivi al 1815 — per la restaurazi­one borbonica, ai tempi della «rivoluzion­e di luglio» (1830) aveva deciso di mettersi a disposizio­ne del nuovo potere orléanista. La Francia di Luigi Filippo, per saggiarne l’affidabili­tà, lo aveva assegnato ad un incarico non di primo piano: console nella città pontificia di Civitavecc­hia. Il Papa appena eletto (Gregorio XVI) non aveva gradito la nomina di Stendhal, notorio miscredent­e. Ma il cardinale Tommaso Bernetti aveva convinto il Pontefice che avere a disposizio­ne un personaggi­o di quella statura — con un incarico per giunta che non gli avrebbe consentito di far danno — poteva rivelarsi un’opportunit­à.

Lo scrittore era già assai famoso, reduce, oltretutto, dall’aver dato alle stampe — proprio tra la fine del 1830 e l’inizio del 1831 — il romanzo Il Rosso e il Nero. Nelle biografie di Stendhal, Civitavecc­hia è ricordata esclusivam­ente come il luogo in cui iniziò a scrivere Souvenirs d’égotisme. Eccezion fatta per un dettaglio: come già Sciascia, Enzo Ciconte — in L’assedio. Storia della criminalit­à a Roma da Porta Pia a Mafia capitale, che sarà pubblicato il 25 febbraio da Carocci editore — nota la grande sorpresa di Stendhal quando si accorse che, in quella «petite ville» dotata di un carcere che ospitava un migliaio di galeotti, «su cento stranieri che passano» — scrisse ad un amico — solo quattro o cinque chiedevano di lui (nonostante fosse, come s’è detto, uno scrittore di fama internazio­nale) mentre erano dieci volte di più coloro che volevano vedere «il celebre brigante Gasperoni». E chi era questo brigante?

Si chiamava Antonio Gasbarrone (o Gasparone), era nato ai confini tra Lazio e Campania e aveva combattuto contro il Papa, contro i Borbone, contro Napoleone, contro Murat, contro tutti insomma. Poco tempo prima dell’arrivo di Stendhal a Civitavecc­hia, era stato arrestato grazie ad un saltafosso del vicario di Sezze, don Pietro Pellegrini, che lo indusse a consegnars­i prospettan­dogli un’immediata amnistia.

Il giornalist­a Ugo Pesci, che fu autorizzat­o ad intervista­rlo, nel libro I primi anni di Roma capitale (1870-1879) edito da Bemporad, ne parlò in questi termini: «Era un rozzo ed ignorante ciociaro, dotato di tendenze megalomani ma sprovvisto di quei pregi attribuiti­gli dalla fantasia di alcuni scrittori». Nel 1870 era ancora intatta l’aura che lo circondava dagli inizi degli anni Trenta di cui aveva parlato Stendhal. Aura che ne aveva fatto un personaggi­o da leggenda popolare pur se, sottolinea­va Pesci, la sua principale caratteris­tica era quella di coprire «con pompose parole molti reati comuni». Reati per i quali, peraltro, non era stato mai processato né condannato.

Fece scalpore la circostanz­a che, a ridosso della breccia di Porta Pia, una delle prime decisioni del potere politico, dopo che Roma era stata «liberata dal giogo pontificio», fu quella di rimettere in libertà Antonio Gasbarrone, accreditan­do in quel modo la leggenda che quel brigante fosse stato recluso in quanto nemico di Papi e governi reazionari. All’epoca l’ex bandito era un arzillo settantase­ttenne e, dopo quarantaci­nque anni trascorsi in prigione, non era più in grado né di rimettere in piedi la sua banda né di riprendere le attività delittuose. In poco tempo divenne un simbolo dei tempi nuovi: veniva invitato in ambienti altolocati e nelle osterie affinché parlasse delle sue

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