Corriere della Sera

Stare bene insieme, il gruppo: l’idea vincente di Messina

- Di Roberto De Ponti

«Il gruppo si è ritrovato pian piano. Io gli sto addosso. Forse anche troppo». Quando lo ammette sorride, Ettore Messina, ma sa che il «forse anche troppo» è detto a uso e consumo di chi gli sta intorno, non certo dei suoi giocatori. Non è mai troppo, per l’allenatore che domenica ha messo in bacheca il suo trentesimo trofeo: anche avanti di 30 e passa punti, in una finale che non è mai esistita, Messina non ha perso occasione per punzecchia­re gli arbitri e per cazziare la squadra nelle (rare, in verità) occasioni in cui vedeva qualcosa che non andava.

Ma è anche da questi particolar­i che si giudica una squadra che in Italia non sembra avere rivali e che in Eurolega veleggia al terzo posto (però diciamolo sottovoce, perché le delusioni recenti sono state troppe).

Da questi e da altri particolar­i: vedere i giocatori di Milano sorridere e scherzare in panchina, vedere campioni affermati fare il tifo per i compagni senza invidie per il minutaggio altrui, è stato importante quasi quanto contare il numero degli assist e il computo degli scarti riservati ai malcapitat­i avversari. Un gruppo, appunto.

La parola Torchietto le ricorda qualcosa, Messina? «Certo, magari non la scomoderei, però è un fatto che questi ragazzi stiano bene insieme». Il Torchietto: ristorante sui Navigli dove l’Olimpia di Meneghin, D’Antoni e McAdoo costruiva le proprie vittorie tra abbuffate, scherzi feroci e partite a carte in orari assurdi, e il Sergio Ragazzi lasciava le chiavi a chi rimaneva sicuro di ritrovarlo la mattina dopo.

Altri tempi? «Altri tempi. E paradossal­mente era più facile trovarci a cena lo scorso anno, prima che esplodesse il Covid. Ora pranziamo insieme quando andiamo in trasferta, ma vedo ragazzi che hanno piacere di rimanere in gruppo e chiacchier­are anche dopo il caffè, senza nasconders­i dietro a uno smartphone o sotto cuffie giganti». Ora, non sarà questo l’unico segreto, non sarà solo la leadership dentro e soprattutt­o fuori dal campo di Rodriguez e Hines, di Datome e Delaney a fare la differenza. Però aiuta. «Aiuta molto», ammette Messina. «Quando dico che questa squadra mi rende fiero e orgoglioso dico la verità. Per usare una frase alla Popovich: questi ragazzi mi permettono di allenarli. Mi danno fiducia, accettano le mie decisioni, capiscono che sono per il bene della squadra. Nessuno conta i minuti in cui resta in campo o i palloni che tocca, tutti lavorano per un obiettivo comune». Anche perché, al minimo segnale di sufficienz­a, trovano un allenatore che se li mangia. Anche se sta vincendo di trenta.

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