L’UTILITÀ DI SMINARE L’AGENDA
L’immigrazione, poi. La prescrizione, più tardi. La graticola per Speranza, quanto basta (il caos sullo sci grida vendetta) ma dopo un anno così difficile bisogna pur sostenere un ministro tanto stressato… Pandemia e crisi hanno insomma ridisegnato in fretta le urgenze, raccolte nell’agenda Draghi per il rilancio dell’Italia. E impongono un ragionevole tentativo di sminare il tracciato, ricacciando sullo sfondo argomenti polemici sui quali, fino a ieri, le forze politiche si sono lasciate guidare dall’interesse di fazione.
Le cose sono cambiate prima di tutto nella testa degli italiani. Se i leader di partito insistessero su temi divisivi e non decisivi, potrebbero causare nei prossimi mesi una sorta di sdoppiamento dell’esecutivo. Draghi ha infatti saggiamente protetto con i suoi ministri tecnici più fidati la cinghia di trasmissione del Recovery fund, ciò che ci chiede davvero l’Europa: Daniele Franco, Vittorio Colao e Roberto Cingolani sono la garanzia di un lavoro silenzioso ed efficace per mettere in sicurezza la parte più importante e cospicua dei fondi per la rinascita nazionale, virata sulla riconversione ambientale e digitale. Ma questa è la prospettiva medio-lunga. Accanto ad essa ce n’è una più breve, una quotidianità governativa dove la rissa cova sotto la cenere, l’esternazione improvvida (magari sulla reversibilità dell’euro…) può balzare nei titoli dei telegiornali complicando anche le procedure più virtuose.
Questo permanente circo Barnum ha una sua tradizione radicata nel nostro genius loci da guelfi e ghibellini: ministri contro ministri, come galli in un pollaio, hanno allontanato sempre più i cittadini dall’amore per la cosa pubblica. In questa fase così delicata, tuttavia, il pericolo che la bagarre dei ministri politici (il gabinetto allargato, magari con l’aggiunta di scienziati da talk show) finisca per intaccare la cintura di sicurezza dei ministri tecnici, trascinando nel consueto clima da opera buffa questi giorni di tragedia, è purtroppo reale. Ma il Paese oggi non può permettersi due governi paralleli, uno serio e uno scapestrato. Si tratta perciò di cercare un approccio misurato, anche sui temi più caldi. Allineandosi allo stile del nuovo premier, propenso a parlare soltanto quando ci sia un risultato da comunicare e non un miracolo da promettere.
Su tale strada possono ergersi diversi ostacoli. Alcuni, contingenti. Lo stop inopinato alla riapertura degli impianti da sci, coi conseguenti danni all’economia e l’annessa baruffa ministeriale, ne è un esempio.
Vi sono, inoltre, ostacoli permanenti, prevedibili: temi legati all’identità di questo o quel gruppo politico, come il blocco della prescrizione e la gestione dei migranti. Non si tratta di eluderli, ovviamente. Ma di approcciarli con criterio, rinviando, quando possibile, gli scontri ideologici a un momento meno critico per l’Italia.
Nessuno può pensare di togliere dal tavolo la questione della giustizia, su cui la stessa Unione europea ci incita a fare riforme. Ma una cosa è affrontare con uno sforzo comune la lentezza della giustizia civile, che scoraggia anche gli investitori stranieri, tutt’altra è accendere la guerriglia parlamentare tra giustizialisti e garantisti sulla durata di un processo penale che per i Cinque Stelle potrebbe anche tendere all’infinito.
Lo stesso metro vale per l’altro grande totem degli ultimi anni: la gestione dei flussi migratori. Nessuno può immaginare di cancellare d’incanto la questione dall’agenda del Viminale o di non organizzare per tempo una risposta efficace alla domanda di sostegno che di certo salirà la prossima estate anzitutto da Lampedusa a fronte di nuovi sbarchi. Ma una cosa è sostenere le nostre comunità locali, spingendo al tempo stesso su Bruxelles per ottenere infine una plausibile redistribuzione dei profughi. Tutt’altro sarebbe ricominciare a cavalcare un’emergenza che, numeri alla mano, tale non è da almeno tre anni. Si capisce la tentazione di Matteo Salvini: quasi per una coazione a ripetere, il segretario leghista ha puntato sin da subito la ministra Lamorgese, riconfermata agli Interni, chiedendole un «cambio di passo» e rimarcando come gli sbarchi del 2020 (34.134) siano il triplo di quelli dell’anno precedente (11.471). La questione è più complessa, l’aumento del 300% è riferito a numeri molto bassi (durante la crisi 2014-17 ne avemmo fino a 180 mila l’anno) e trentamila sbarchi sono ben sostenibili in un Paese che avrebbe bisogno di un decreto flussi da centomila arrivi l’anno (certo, regolari e qualificati) onde contrastare gli effetti della denatalità sul mondo del lavoro. Ma il punto non è questo. La vera scommessa, per un leader di maggioranza, sarà resistere alla tentazione di fare demagogia se e quando la «sua» materia dovesse davvero surriscaldarsi. Ancora una volta deve prevalere il buonsenso. La questione migratoria richiede un nuovo approccio globale che tenga insieme solidarietà e sicurezza. Ma questo sarà compito eventuale della coalizione politica che governerà dopo le prossime elezioni. C’è un tempo per ogni cosa, dice l’Ecclesiaste. E forse i colloqui bilaterali tra leader di queste ore sono un segno di ravvedimento operoso, così come il salvagente lanciato da Salvini allo «stressato» Speranza dopo le polemiche. Altre urgenze premono oggi. Immaginare che gli italiani si tormentino per il lodo sulla prescrizione o per un ritocco alla protezione umanitaria, significa avere smesso da un pezzo di entrare in un supermercato o di salire su un autobus.