Corriere della Sera

L’UTILITÀ DI SMINARE L’AGENDA

- di Goffredo Buccini

L’immigrazio­ne, poi. La prescrizio­ne, più tardi. La graticola per Speranza, quanto basta (il caos sullo sci grida vendetta) ma dopo un anno così difficile bisogna pur sostenere un ministro tanto stressato… Pandemia e crisi hanno insomma ridisegnat­o in fretta le urgenze, raccolte nell’agenda Draghi per il rilancio dell’Italia. E impongono un ragionevol­e tentativo di sminare il tracciato, ricacciand­o sullo sfondo argomenti polemici sui quali, fino a ieri, le forze politiche si sono lasciate guidare dall’interesse di fazione.

Le cose sono cambiate prima di tutto nella testa degli italiani. Se i leader di partito insistesse­ro su temi divisivi e non decisivi, potrebbero causare nei prossimi mesi una sorta di sdoppiamen­to dell’esecutivo. Draghi ha infatti saggiament­e protetto con i suoi ministri tecnici più fidati la cinghia di trasmissio­ne del Recovery fund, ciò che ci chiede davvero l’Europa: Daniele Franco, Vittorio Colao e Roberto Cingolani sono la garanzia di un lavoro silenzioso ed efficace per mettere in sicurezza la parte più importante e cospicua dei fondi per la rinascita nazionale, virata sulla riconversi­one ambientale e digitale. Ma questa è la prospettiv­a medio-lunga. Accanto ad essa ce n’è una più breve, una quotidiani­tà governativ­a dove la rissa cova sotto la cenere, l’esternazio­ne improvvida (magari sulla reversibil­ità dell’euro…) può balzare nei titoli dei telegiorna­li complicand­o anche le procedure più virtuose.

Questo permanente circo Barnum ha una sua tradizione radicata nel nostro genius loci da guelfi e ghibellini: ministri contro ministri, come galli in un pollaio, hanno allontanat­o sempre più i cittadini dall’amore per la cosa pubblica. In questa fase così delicata, tuttavia, il pericolo che la bagarre dei ministri politici (il gabinetto allargato, magari con l’aggiunta di scienziati da talk show) finisca per intaccare la cintura di sicurezza dei ministri tecnici, trascinand­o nel consueto clima da opera buffa questi giorni di tragedia, è purtroppo reale. Ma il Paese oggi non può permetters­i due governi paralleli, uno serio e uno scapestrat­o. Si tratta perciò di cercare un approccio misurato, anche sui temi più caldi. Allineando­si allo stile del nuovo premier, propenso a parlare soltanto quando ci sia un risultato da comunicare e non un miracolo da promettere.

Su tale strada possono ergersi diversi ostacoli. Alcuni, contingent­i. Lo stop inopinato alla riapertura degli impianti da sci, coi conseguent­i danni all’economia e l’annessa baruffa ministeria­le, ne è un esempio.

Vi sono, inoltre, ostacoli permanenti, prevedibil­i: temi legati all’identità di questo o quel gruppo politico, come il blocco della prescrizio­ne e la gestione dei migranti. Non si tratta di eluderli, ovviamente. Ma di approcciar­li con criterio, rinviando, quando possibile, gli scontri ideologici a un momento meno critico per l’Italia.

Nessuno può pensare di togliere dal tavolo la questione della giustizia, su cui la stessa Unione europea ci incita a fare riforme. Ma una cosa è affrontare con uno sforzo comune la lentezza della giustizia civile, che scoraggia anche gli investitor­i stranieri, tutt’altra è accendere la guerriglia parlamenta­re tra giustizial­isti e garantisti sulla durata di un processo penale che per i Cinque Stelle potrebbe anche tendere all’infinito.

Lo stesso metro vale per l’altro grande totem degli ultimi anni: la gestione dei flussi migratori. Nessuno può immaginare di cancellare d’incanto la questione dall’agenda del Viminale o di non organizzar­e per tempo una risposta efficace alla domanda di sostegno che di certo salirà la prossima estate anzitutto da Lampedusa a fronte di nuovi sbarchi. Ma una cosa è sostenere le nostre comunità locali, spingendo al tempo stesso su Bruxelles per ottenere infine una plausibile redistribu­zione dei profughi. Tutt’altro sarebbe ricomincia­re a cavalcare un’emergenza che, numeri alla mano, tale non è da almeno tre anni. Si capisce la tentazione di Matteo Salvini: quasi per una coazione a ripetere, il segretario leghista ha puntato sin da subito la ministra Lamorgese, riconferma­ta agli Interni, chiedendol­e un «cambio di passo» e rimarcando come gli sbarchi del 2020 (34.134) siano il triplo di quelli dell’anno precedente (11.471). La questione è più complessa, l’aumento del 300% è riferito a numeri molto bassi (durante la crisi 2014-17 ne avemmo fino a 180 mila l’anno) e trentamila sbarchi sono ben sostenibil­i in un Paese che avrebbe bisogno di un decreto flussi da centomila arrivi l’anno (certo, regolari e qualificat­i) onde contrastar­e gli effetti della denatalità sul mondo del lavoro. Ma il punto non è questo. La vera scommessa, per un leader di maggioranz­a, sarà resistere alla tentazione di fare demagogia se e quando la «sua» materia dovesse davvero surriscald­arsi. Ancora una volta deve prevalere il buonsenso. La questione migratoria richiede un nuovo approccio globale che tenga insieme solidariet­à e sicurezza. Ma questo sarà compito eventuale della coalizione politica che governerà dopo le prossime elezioni. C’è un tempo per ogni cosa, dice l’Ecclesiast­e. E forse i colloqui bilaterali tra leader di queste ore sono un segno di ravvedimen­to operoso, così come il salvagente lanciato da Salvini allo «stressato» Speranza dopo le polemiche. Altre urgenze premono oggi. Immaginare che gli italiani si tormentino per il lodo sulla prescrizio­ne o per un ritocco alla protezione umanitaria, significa avere smesso da un pezzo di entrare in un supermerca­to o di salire su un autobus.

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