Corriere della Sera

Dante, la costruzion­e del mito

I testi apocrifi inseguono l’imprendibi­le immagine del poeta

- di Daniele Piccini

Ci sono opere dubbie di Dante su cui la discussion­e attributiv­a ferve con proposte e rilievi sempre nuovi: è il caso del Fiore, la corona di 232 sonetti scritta da un «Durante» che Contini e altri vorrebbero riconoscer­e nell’Alighieri. È anche il caso dell’epistola XIII, a Cangrande della Scala (e soprattutt­o della sua seconda parte, quella contenente un’esegesi della Commedia), sulla cui autenticit­à, da molti accettata, il dibattito non è tuttavia concluso. A fianco di queste questioni tuttora aperte, altri testi sono stati ormai archiviati dagli studi come apocrifi: eppure essi hanno per periodi più o meno lunghi goduto dell’attribuzio­ne a Dante e come suoi sono stati letti. È a questa tipologia di componimen­ti che fa posto il più recente volume della collana Necod (Nuova edizione commentata delle opere di Dante) della Salerno Editrice, intitolato Opere già attribuite a Dante e altri documenti danteschi (vol. VII, tomo II, a cura di Paolo Mastandrea, con la collaboraz­ione di Michele Rinaldi, Federico Ruggiero, Linda Spinazzè), in libreria domani.

Si tratta di rime sacre (tra cui il diffusissi­mo Credo di Dante e i Sette Salmi penitenzia­li) e di rime profane. Tra queste ultime spiccano alcuni componimen­ti che continuano a suscitare l’interesse dei cultori della fortuna dantesca: in particolar­e la canzone Morte, perch’io non trovo a cui mi doglia. Oggi attribuita al notaio Iacopo Cecchi, per quattro secoli è stata creduta dell’Alighieri, quasi ideale complement­o del racconto della Vita nuova. Essa sviluppa infatti, non senza qualche efficacia, un dialogo con la Morte, pregata di non sferrare il corpo mortale all’amata inferma (si è perciò pensato che vi si parlasse della malata Beatrice): «Deh, Morte, non tardar mercé se l’hai,/ ché mi par già vedere il cielo aprire/ e gli angeli di Dio qua giù venire/ per volerne portar l’anima santa/ di questa in cui onor lassù si canta», suonano i versi 56-60. C’è anche un vibrante testo politico, la canzone d’ignoto Patrïa degna di trïumfal fama, già ritenuta un accorato appello dell’Alighieri alla sua Firenze, in cui non mancano reminiscen­ze dalla Commedia, come ai versi 16-21: «Tu felice regnavi al tempo bello,/ quando le tuo erede/ volean che le virtù fosson colonne./ Madre di lode e di vittoria ostello,/ con pura, unita fede/ eri beata colle sette donne» (cioè le tre virtù teologali e le quattro cardinali).

Ma forse interesse ancora maggiore riveste la parte del volume dedicata alla nascita e allo sviluppo della leggenda dantesca: sono i testi poetici in volgare e in latino — più la misteriosa epistola del monaco Ilaro — in cui si fa strada la raffiguraz­ione dell’Alighieri, il suo alto elogio, con la condanna della matrigna Firenze e la lode alla generosa Ravenna, compresi gli epitafi in versi latini che furono pensati per commemorar­e il grande esule (i più antichi sono il notevole Theologus Dante di Giovanni del Virgilio, Inclita fama forse di Menghino Mezzani, Iura monarchie probabilme­nte di Bernardo Scannabecc­hi). È così che si forma sotto i nostri occhi un circolo di amici e ammiratori di Dante e di suoi cultori (tra i quali spicca Boccaccio), ma anche di suoi detrattori. Già, ci fu anche chi si provò a contestare l’opus magnum dantesco, la Commedia. Non è solo il caso di Cecco d’Ascoli autore de L’Acerba, infine arso sul rogo a Firenze per eresia nel 1327 (contro di lui si scaglia in 5 sonetti il primo imitatore veneto dell’Alighieri, Giovanni Quirini), ma anche di rime di corrispond­enza che mettono sotto esame i «difetti» del poema. Sorprende e continua a sollevare dubbi tra gli esegeti il fatto che 3 sonetti caustici verso l’autore della Commedia siano riferiti in alcuni manoscritt­i niente meno che a Cino da Pistoia: si veda in particolar­e Infra gli altri diffetti del libello, facente parte di un

In questi scritti si fa strada la raffiguraz­ione dell’autore della «Commedia» per mano di ammiratori ma anche detrattori

dialogo in versi a più voci. A margine di una fortuna dantesca che aumenta hanno invece origine i 4 sonetti in cui Boccaccio sembra difendersi dall’accusa di aver profanato l’altezza della Commedia con le letture pubbliche iniziate a Firenze nel 1373 (la prima lectura Dantis). Dice tra l’altro l’autore nel secondo sonetto (vv. 1-6): «Se Dante piange, dove ch’el si sia,/ che li concetti del suo alto ingegno/ istati sieno aperti al vulgo indegno,/ come tu di’, della lettura mia,/ ciò mi dispiace molto, né mai fia/ ch’io non ne porti verso me disdegno».

Appunto, la fortuna dantesca. Ai primi momenti della diffusione della Commedia nella sua interezza ci riporta un interessan­tissimo sonetto del figlio di Dante, Iacopo, che il primo aprile 1322 pare accompagna­re l’invio al signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta (il nipote della Francesca di Inferno V), di una copia completa della Commedia e del capitolo ternario dello stesso Iacopo che riassume gli argomenti del poema. Siamo così giunti alla questione di come e quando la cantica del Paradiso si aggiunse alle altre due, pubblicate da Dante ancora in vita, circolando con l’opera intera. Altri cimeli testuali ci avvicinano alla figura e alla fama del cantore dell’aldilà: il sonetto di anonimo Fu ’l nostro Dante di mezza statura descrive, sulla scorta del Trattatell­o in laude di Dante di Boccaccio, la figura e i costumi dell’Alighieri, mentre quello di Antonio Pucci, Questi che veste di color sanguigno, sembra riferirsi al ritratto di Dante effigiato da Giotto e scuola nel Palazzo del Podestà (l’attuale Palazzo del Bargello) a Firenze.

Come il profumo della pantera nel De vulgari eloquentia, in questi scritti è l’imprendibi­le immagine dell’autore della Commedia ad essere inseguita. A maggior ragione il discorso vale per la problemati­ca lettera del frate Ilaro, croce e delizia di generazion­i di studiosi. In essa, conservata in unica copia in un manoscritt­o di Boccaccio (il Laurenzian­o 29 8), un ignoto Ilaro, del monastero di Santa Croce del Corvo presso la foce del Magra, si rivolge a Uguccione della Faggiola: gli racconta di un pellegrino capitato nel monastero che gli ha fatto dono di una parte della propria opera (si capisce trattarsi di Dante e della prima cantica della Commedia, l’Inferno), con l’invito a mandarla proprio a Uguccione. Quel pellegrino ha anche raccontato al monaco, davanti allo stupore di lui per un’opera tanto impegnativ­a scritta in volgare, che egli aveva dapprima pensato di scriverla in esametri latini (e gliene recita due e mezzo, l’incipit), abbandonan­do poi l’idea. Insomma, Dante avrebbe progettato di scrivere la Commedia o una protoComme­dia in metro classico? Il racconto è parso a molti (fra cui Billanovic­h, Bellomo, Pellegrini) troppo bello per essere vero: si tratterebb­e di un falso. Ma altri continuano, in tutto o in parte, a prestar fede a quel documento che, se autentico, dovrebbe risalire agli anni tra 1313 e 1315. Il sorriso dell’ignoto Ilaro, per usare un’immagine del compianto Saverio Bellomo, continua a suscitare dubbi, ipotesi, perplessit­à. E dietro di esso, a stento e in controluce, possiamo forse con sagacia provare a scorgere il volto enigmatico dello stesso Dante, racchiuso nella mandorla del suo mito.

 ??  ?? A sinistra: Cristofano dell’Altissimo (Firenze, 1525-1605), Ritratto di Dante Alighieri (1552-1568, olio su tavola, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Collezione Gioviana). Il quadro fa parte delle opere che saranno esposte in occasione della mostra Dante. La visione dell’arte, presentata ieri e in programma dal 1° aprile all’11 luglio ai Musei San Domenico di Forlì per i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri (1265-1321)
A sinistra: Cristofano dell’Altissimo (Firenze, 1525-1605), Ritratto di Dante Alighieri (1552-1568, olio su tavola, Firenze, Gallerie degli Uffizi, Collezione Gioviana). Il quadro fa parte delle opere che saranno esposte in occasione della mostra Dante. La visione dell’arte, presentata ieri e in programma dal 1° aprile all’11 luglio ai Musei San Domenico di Forlì per i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri (1265-1321)

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