Dante, la costruzione del mito
I testi apocrifi inseguono l’imprendibile immagine del poeta
Ci sono opere dubbie di Dante su cui la discussione attributiva ferve con proposte e rilievi sempre nuovi: è il caso del Fiore, la corona di 232 sonetti scritta da un «Durante» che Contini e altri vorrebbero riconoscere nell’Alighieri. È anche il caso dell’epistola XIII, a Cangrande della Scala (e soprattutto della sua seconda parte, quella contenente un’esegesi della Commedia), sulla cui autenticità, da molti accettata, il dibattito non è tuttavia concluso. A fianco di queste questioni tuttora aperte, altri testi sono stati ormai archiviati dagli studi come apocrifi: eppure essi hanno per periodi più o meno lunghi goduto dell’attribuzione a Dante e come suoi sono stati letti. È a questa tipologia di componimenti che fa posto il più recente volume della collana Necod (Nuova edizione commentata delle opere di Dante) della Salerno Editrice, intitolato Opere già attribuite a Dante e altri documenti danteschi (vol. VII, tomo II, a cura di Paolo Mastandrea, con la collaborazione di Michele Rinaldi, Federico Ruggiero, Linda Spinazzè), in libreria domani.
Si tratta di rime sacre (tra cui il diffusissimo Credo di Dante e i Sette Salmi penitenziali) e di rime profane. Tra queste ultime spiccano alcuni componimenti che continuano a suscitare l’interesse dei cultori della fortuna dantesca: in particolare la canzone Morte, perch’io non trovo a cui mi doglia. Oggi attribuita al notaio Iacopo Cecchi, per quattro secoli è stata creduta dell’Alighieri, quasi ideale complemento del racconto della Vita nuova. Essa sviluppa infatti, non senza qualche efficacia, un dialogo con la Morte, pregata di non sferrare il corpo mortale all’amata inferma (si è perciò pensato che vi si parlasse della malata Beatrice): «Deh, Morte, non tardar mercé se l’hai,/ ché mi par già vedere il cielo aprire/ e gli angeli di Dio qua giù venire/ per volerne portar l’anima santa/ di questa in cui onor lassù si canta», suonano i versi 56-60. C’è anche un vibrante testo politico, la canzone d’ignoto Patrïa degna di trïumfal fama, già ritenuta un accorato appello dell’Alighieri alla sua Firenze, in cui non mancano reminiscenze dalla Commedia, come ai versi 16-21: «Tu felice regnavi al tempo bello,/ quando le tuo erede/ volean che le virtù fosson colonne./ Madre di lode e di vittoria ostello,/ con pura, unita fede/ eri beata colle sette donne» (cioè le tre virtù teologali e le quattro cardinali).
Ma forse interesse ancora maggiore riveste la parte del volume dedicata alla nascita e allo sviluppo della leggenda dantesca: sono i testi poetici in volgare e in latino — più la misteriosa epistola del monaco Ilaro — in cui si fa strada la raffigurazione dell’Alighieri, il suo alto elogio, con la condanna della matrigna Firenze e la lode alla generosa Ravenna, compresi gli epitafi in versi latini che furono pensati per commemorare il grande esule (i più antichi sono il notevole Theologus Dante di Giovanni del Virgilio, Inclita fama forse di Menghino Mezzani, Iura monarchie probabilmente di Bernardo Scannabecchi). È così che si forma sotto i nostri occhi un circolo di amici e ammiratori di Dante e di suoi cultori (tra i quali spicca Boccaccio), ma anche di suoi detrattori. Già, ci fu anche chi si provò a contestare l’opus magnum dantesco, la Commedia. Non è solo il caso di Cecco d’Ascoli autore de L’Acerba, infine arso sul rogo a Firenze per eresia nel 1327 (contro di lui si scaglia in 5 sonetti il primo imitatore veneto dell’Alighieri, Giovanni Quirini), ma anche di rime di corrispondenza che mettono sotto esame i «difetti» del poema. Sorprende e continua a sollevare dubbi tra gli esegeti il fatto che 3 sonetti caustici verso l’autore della Commedia siano riferiti in alcuni manoscritti niente meno che a Cino da Pistoia: si veda in particolare Infra gli altri diffetti del libello, facente parte di un
In questi scritti si fa strada la raffigurazione dell’autore della «Commedia» per mano di ammiratori ma anche detrattori
dialogo in versi a più voci. A margine di una fortuna dantesca che aumenta hanno invece origine i 4 sonetti in cui Boccaccio sembra difendersi dall’accusa di aver profanato l’altezza della Commedia con le letture pubbliche iniziate a Firenze nel 1373 (la prima lectura Dantis). Dice tra l’altro l’autore nel secondo sonetto (vv. 1-6): «Se Dante piange, dove ch’el si sia,/ che li concetti del suo alto ingegno/ istati sieno aperti al vulgo indegno,/ come tu di’, della lettura mia,/ ciò mi dispiace molto, né mai fia/ ch’io non ne porti verso me disdegno».
Appunto, la fortuna dantesca. Ai primi momenti della diffusione della Commedia nella sua interezza ci riporta un interessantissimo sonetto del figlio di Dante, Iacopo, che il primo aprile 1322 pare accompagnare l’invio al signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta (il nipote della Francesca di Inferno V), di una copia completa della Commedia e del capitolo ternario dello stesso Iacopo che riassume gli argomenti del poema. Siamo così giunti alla questione di come e quando la cantica del Paradiso si aggiunse alle altre due, pubblicate da Dante ancora in vita, circolando con l’opera intera. Altri cimeli testuali ci avvicinano alla figura e alla fama del cantore dell’aldilà: il sonetto di anonimo Fu ’l nostro Dante di mezza statura descrive, sulla scorta del Trattatello in laude di Dante di Boccaccio, la figura e i costumi dell’Alighieri, mentre quello di Antonio Pucci, Questi che veste di color sanguigno, sembra riferirsi al ritratto di Dante effigiato da Giotto e scuola nel Palazzo del Podestà (l’attuale Palazzo del Bargello) a Firenze.
Come il profumo della pantera nel De vulgari eloquentia, in questi scritti è l’imprendibile immagine dell’autore della Commedia ad essere inseguita. A maggior ragione il discorso vale per la problematica lettera del frate Ilaro, croce e delizia di generazioni di studiosi. In essa, conservata in unica copia in un manoscritto di Boccaccio (il Laurenziano 29 8), un ignoto Ilaro, del monastero di Santa Croce del Corvo presso la foce del Magra, si rivolge a Uguccione della Faggiola: gli racconta di un pellegrino capitato nel monastero che gli ha fatto dono di una parte della propria opera (si capisce trattarsi di Dante e della prima cantica della Commedia, l’Inferno), con l’invito a mandarla proprio a Uguccione. Quel pellegrino ha anche raccontato al monaco, davanti allo stupore di lui per un’opera tanto impegnativa scritta in volgare, che egli aveva dapprima pensato di scriverla in esametri latini (e gliene recita due e mezzo, l’incipit), abbandonando poi l’idea. Insomma, Dante avrebbe progettato di scrivere la Commedia o una protoCommedia in metro classico? Il racconto è parso a molti (fra cui Billanovich, Bellomo, Pellegrini) troppo bello per essere vero: si tratterebbe di un falso. Ma altri continuano, in tutto o in parte, a prestar fede a quel documento che, se autentico, dovrebbe risalire agli anni tra 1313 e 1315. Il sorriso dell’ignoto Ilaro, per usare un’immagine del compianto Saverio Bellomo, continua a suscitare dubbi, ipotesi, perplessità. E dietro di esso, a stento e in controluce, possiamo forse con sagacia provare a scorgere il volto enigmatico dello stesso Dante, racchiuso nella mandorla del suo mito.