Il poliziotto al centro degli intrighi D’Amato, una vita fitta di segreti
Trame «La spia intoccabile» (Einaudi) di Giacomo Pacini sul capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale
Forse nemmeno lui, che di trame e colpi di scena se ne intendeva, avrebbe immaginato di ritrovarsi imputato da morto, e per un delitto tanto grave: strage con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. O forse sì, da vero conoscitore di segreti propri e altrui. Fatto sta che a venticinque anni dalla scomparsa Federico Umberto D’Amato compare oggi tra gli accusati per la bomba alla stazione di Bologna che il 2 agosto 1980 uccise 85 persone e ne ferì oltre duecento.
L’eventuale coinvolgimento in quell’eccidio è «una questione aperta» che andrà chiarita nel processo agli imputati ancora in vita, sostiene lo storico Giacomo Pacini in La spia intoccabile (Einaudi), biografia dell’uomo che fu l’anima dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno: una polizia parallela e al tempo stesso un Servizio segreto aggiunto, che ha attraversato la storia d’Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale (e contestuale inizio della guerra fredda) al terrorismo di ogni colore, fino allo scandalo dei «fondi neri» del Sisde, il Servizio segreto civile.
Intorno alla figura di D’Amato Pacini ha scavato a lungo e in profondità; portando alla luce, per quanto possibile, le tante sfaccettature di un uomo vissuto sempre a stretto contatto con il potere, e quasi pronto a sfidarlo nel momento in cui quello stesso potere gli ha chiesto conto di comportamenti obliqui o ambigui. Come quando, dopo la comparsa del proprio nome nell’elenco degli iscritti alla Loggia P2 (tessera n. 1643), scrisse al ministro dell’Interno Virginio Rognoni che i contatti con la massoneria deviata rientravano tra i suoi compiti. E che a volerlo giudicare dalle relazioni intrecciate lo si poteva considerare di volta in volta «fiancheggiatore di Autonomia opedoveva raia o del terrorismo palestinese, agente del Servizio americano o sovietico, emissario di questo o quel partito politico».
Un’autodifesa rude, che pochi altri si sarebbero potuti permettere, nota l’autore. Anche perché pochi altri potevano vantare un’esistenza non lunghissima (D’Amato è morto nel 1996, a 77 anni), ma da subito immersa nei misteri dei palazzi e delle spie. Nazionali e non solo. Figlio di un commissario di polizia temporaneamente trasferitosi a Marsiglia, all’indomani dell’8 settembre 1943 si schiera giovanissimo al fianco degli americani contro i tedeschi, e da allora è al servizio dell’alleato atlantico. Nonostante i tentativi del Servizio segreto militare di screditarlo ipotizzando il doppio gioco in favore dei sovietici.
Sotto la sua guida l’Ufficio affari riservati riesce a infiltrare il Pci e «schedare» i giudici di Magistratura democratica, così come i gruppi della sinistra extraparlamentari, a partire da Lotta continua. Quelli di destra, invece, vengono utilizzati per qualche operazione, mentre anche l’Uar si dedica ai depistaggi sulle stragi, in modo da attribuirle ai «rossi» e allontanare i sospetti dai neofascisti. Durante una riunione dei vertici degli apparati di sicurezza occidentali dell’autunno 1972, D’Amato afferma esplicitamente che la catena di esplosioni del ’69 culminate nella bomba di piazza Fontana sono da attribuire ai movimenti intenti a «radicalizzare le lotte politiche e sindacali del cosiddetto autunno caldo». E i funzionari degli «uffici politici» delle questure imparano ben presto a guardare con sospetto la sua abitudine di inviare, dopo ogni attentato, qualche agente che
Era l’eminenza grigia e al tempo stesso la memoria storica dei Servizi di sicurezza
«aiutarli nelle indagini».
L’obiettivo di D’Amato è sempre uno: evitare che, nel campo occidentale, l’Italia possa vacillare e offrire sponde al nemico orientale. Forse per questo un ex partigiano e antifascista convinto come l’ex ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani l’ha sempre difeso, pur avendolo rimosso dall’Uar dopo la strage di Brescia del 1974. Consentendogli però di rimanere un poliziotto-spia in attività. Che ancora al tramonto della Prima Repubblica veniva retribuito con i fondi riservati del Sisde. L’indagine a suo carico fu archiviata perché — scrisse il procuratore di Roma Michele Coiro, un leader di Magistratura democratica — «la sua opera di consulente appare del tutto giustificata», dal momento che «D’Amato rappresenta una sorta di memoria storica dell’attività di sicurezza nel nostro Paese». Ancora oggi oggetto di studi storici e di processi, seppure virtuali.