TEATRO DELLA REALTÀ
La mostra che celebra i dieci anni dell’istituzione nazionale è il punto di partenza di una riflessione più ampia. Melandri: «Una ricerca culturale allargata a tanti» IL MUSEO DEL FUTURO SARÀ «UN’OFFICINA VIVA» E IL MAXXI RILANCIA UN’ARTE DENTRO IL PRESE
Novant’anni fa Salvador Dalí prevedeva che in un futuro prossimo i musei sarebbero stati così pieni di opere (molte delle quali inutili) da dover costruire «una torre nel deserto» per contenere tutta la produzione artistica. Oggi di queste cattedrali nel nulla ce n’è più d’una nel mondo. In più c’è una pandemia che ci mette di fronte ad una domanda: qual è il museo che abiterà il futuro? Continuerà ad essere un museocontenitore o diventerà un museo-produttore di senso?
Il MAXXI, da officina di creatività quale è, non smette mai di chiederselo e forse non è un caso che, per celebrare i suoi primi dieci anni di vita — in realtà la «festa» era prevista l’anno scorso, ma il Covid ha le sue leggi — abbia scelto una mostra, Una storia per il futuro. Dieci anni di MAXXI, nella quale il museo non ospita tanto le opere quanto i giorni. I giorni della nostra vita, riassunti in una timeline che scandisce gli eventi internazionali più importanti di questi ultimi dieci anni.
Le opere sono solo evocate, con «bagliori» di quelle che sono state le mostre ospitate nel museo dalla sua fondazione ad oggi. Un progetto del direttore artistico Hou Hanru, affidato a Elena Motisi e a tutto il team del MAXXI, con l’allestimento di Petra Blaisse.
L’opera d’arte, insomma, qui è la vita reale. Attraverso foto, interviste, pubblicazioni, video, vediamo il tempo che scorre: il terremoto di Haiti, la caduta di Berlusconi, l’esordio di Barack Obama, il naufragio della «Concordia», e poi l’arrivo di Trump e le proteste di Black Lives Matter. «Un messaggio preciso — commenta Giovanna Melandri, presidente della Fondazione MAXXI —: il museo che verrà dovrà essere sempre di più un’intelligenza viva, attenta a quello che succede fuori, pronta a recepire e a raccontare i cambiamenti».
Un teatro della realtà che non potrà più, dunque, limitarsi ad esporre simulacri, oppure a rappresentare una realtà statica che viene attraversata da un flusso di opere in frenetico (e anti-ecologico) movimento da un continente all’altro. «Ripensare un museo — continua Melandri — vuol dire interrogarsi su come produrre cultura. Che cosa può fare il MAXXI? Certamente fare ricerca, certamente coltivare incontri culturali e didattica. A questo proposito, ricordo che se in America molti musei si sono precipitati a tagliare la sezione educativa, come effetto della crisi da pandemia, noi abbiamo scelto di rinforzare questo aspetto, convinti che la nostra sia una missione sociale».
Il museo-produttore non può non essere inclusivo («Oggi le aperture coincidono con i giorni lavorativi e di studio. Stiamo lottando per tenere aperto anche nei fine settimana con tutti i sistemi di sicurezza: andare al museo non può diventare un lusso») e paritario («L’ottanta per cento del nostro personale è donna»).
Ma, soprattutto, il museoproduttore non si lascia «sfiorare» da ondate di opere estranee al gusto e alla sensibilità del territorio per poi tornare a essere una scatola vuota, pronta ad accogliere nuovi corpi estranei. «È logico — dice ancora Melandri — cucire rapporti con il territorio, farsi interprete di bisogni reali». La prossima (si spera) apertura del MAXXI a L’Aquila dovrebbe essere un tassello importante nel grande gioco dell’arte contemporanea.
Perché se il secolo scorso è stato quello delle avanguardie e poi del mercato, per il presente i critici guardano all’arte contemporanea come strumento sensibile per capire il presente: le performance non hanno bisogno di spazi chiusi, le installazioni si innestano benissimo negli ambienti cittadini all’aperto. Una pagina tutta ancora da scrivere, sempre con la convinzione, come dice Melandri, che il museo resti sempre «una ricerca che appartiene a tante persone».
Obiettivi
In Usa molti musei hanno tagliato la parte didattica, noi al contrario l’abbiamo rinforzata