Mariotti: vi racconto il cane che odiava Borges
Ironico e lieve, a 85 anni si rivela: «Scrivo cose brevi, un romanzo rischierebbe di rimanere incompiuto»
Che tipo Giovanni Mariotti. Alla sua bella età di 85 anni, non ha mai abbandonato l’aspetto di ragazzotto massiccio e sorridente di un sorriso malinconico, anche se il velo della malinconia si confonde con la timidezza che contribuisce alla postura sempre un po’ curva in un’altezza da giocatore di basket. E poi c’è l’ironia sorniona, la stessa che affiora in ogni sua pagina. Specie adesso che ha lasciato le misure del racconto lungo (quelle di Matilde, il romanzo autobiografico costituito da una sola frase, senza punteggiatura, di circa duecento pagine). Le sue più recenti uscite sono infatti due librini baciati dalla grazia e dalla gioia del ricordo. La gatta, Borges e il foxterrier (Franco Maria Ricci) contiene due suite narrative di materia animale: una gatta e un cagnolino che si rifanno una vita a loro modo: la prima optando per la quiete, il secondo scegliendo la sfida temeraria. Piccoli addii (Adelphi) è una catena di raccontini alla ricerca degli oggetti perduti (certe sigarette sciolte, le calze velate, il salvadanaio, la carta moschicida…) oltre che di immagini, luoghi e figure (la madre sarta e cantante su tutte).
Perché la gatta e il foxterrier?
«Disponevo di due storie di animali (di entrambe ero stato testimone diretto) e ho deciso di riunirle. Come gli uomini, gatti e cani mirano a procurarsi una vita confortevole e una certa sicurezza per il domani. La gatta elesse me e soprattutto mia moglie a referenti umani e la nostra casa a residenza stabile quando i suoi primi “padroni”, che avevano avuto un bambino, le fecero mancare attenzioni e moine. Era una gatta assennata, senza grilli per la testa; cosa che non si può dire del foxterrier, animale dal pedigree impeccabile e dal comportamento impeccabile, salvo in un’occasione: quando i suoi referenti umani, Laura Casalis e Franco Maria Ricci, tentarono di farlo convivere con un ospite, Jorge Luis Borges, che giudicò un pericoloso rivale, in grado di insidiare la sua alta posizione nella casa, e un nemico da abbattere».
E non finì bene...
«Borges era cieco e il foxterrier gli si avventava tra le gambe, cercando di farlo cadere. Alla fine, ci riuscì: Borges dovette battere in ritirata, trasferendosi in hotel. Il racconto cerca di illustrare le ragioni vicine e lontane di quella guerra, con la consapevolezza che al fondo delle guerre, e dei loro sviluppi, esiste un nucleo di irrazionalità delirante».
L’odio era però reciproco. E andando avanti nel racconto si scopre che Borges nutriva un’avversione non solo per il foxterrier Mr. Jones ma in generale per gli animali.
«Gli scrittori esercitano un controllo su quello che scrivono, ma non sui pensieri che li attraversano e sulle reazioni istintive. Nel mio racconto io parlo di Borges non come scrittore, ma come un essere vivente alle prese con un altro essere vivente. In quel contesto Borges e il foxterrier sono alla pari».
L’incontro avvenne lavorando per Ricci?
«Ho conosciuto Borges nella casa milanese dell’editore per progettare insieme una collana, la “Biblioteca di Babele”. Non parlavamo di letteratura o di labirinti, ma di cose banali. Io chiedevo: “Di Stevenson cosa ci mettiamo?” e lui rispondeva... Ammiravo lo scrittore, ma non maturai una particolare ammirazione per l’uomo. Lui stesso diceva che tra la persona e quel che ne scrivono le enciclopedie non c’è nessun rapporto... È così. Ricordo che una volta fece un accostamento tra il cognome di sua moglie Maria Kodama e “cor ama”, un gioco di parole mediocre...».
Diversamente da Borges, il narratore Mariotti non avverte nessun confine netto tra uomini e animali.
«Nella solitaria casa di campagna dove trascorsi l’infanzia abbondavano scorpioni, forbicine millepiedi; in certo mondo anche loro erano animali domestici: tentavano di vivere con noi, ma non c’era adattamento reciproco e io e mia madre li spiaccicavamo con gli zoccoli contro le pareti. Cani e gatti sono frutto di un plurimillenario processo di adattamento. Da sempre attribuiamo loro nomi propri, non li trattiamo come specie ma come individui, e così facendo abbiamo trasmesso loro l’ambizione di accedere allo statuto, tipicamente umano, di persone. Essere considerati specie è per cani e gatti assai doloroso. Come i bambini, gestiscono la rete degli affetti con politiche sottili ed efficaci. Nel mio pet book la gatta usa la diplomazia e il cagnetto la guerra, probabilmente per una differenza di genere: lui è maschio, lei è femmina e ha una cucciolata».
Da cosa nascono i «Piccoli addii»?
«Volevo dedicare il libro a oggetti che col
tempo erano stati sostituiti da altri, più efficienti o, come si dice oggi, più smart. Nel mondo del consumo il meccanismo delle sostituzioni funziona a pieno regime, non solo per le cose ma anche per gli uomini. Ma al Dna della scrittura letteraria è connaturata l’idea dell’unicità: le cose hanno un loro sapore, che non si presta a equivalenze e a rimpiazzi. Le sigarette acquistate sciolte in un’Italia povera avevano un aroma diverso da quelle acquistate a pacchetti o a stecche, e scrivere su una loquace Lettera 22 differiva dallo scrivere su un computer silenzioso. Intorno sento molto silenzio; anche gli orologi hanno smesso di ticchettare. Volevo congedarmi da certi oggetti; scrivendo ho finito col congedarmi anche dal ragazzo che ero, imperfettamente sostituito dal vecchio che sono oggi».
Con la malinconia della vecchiaia?
«Non insisterei troppo sulla malinconia. Da ragazzo ero poverissimo: mio padre, scalpellino, era morto; mia madre faceva la serva. Pensavo che non sarei mai riuscito a guadagnarmi da vivere; invece ci sono riuscito, più o meno. Di recente ho scritto un raccontino sulle origini di un villaggio sloveno, Jeruzalem. Parla di certi ragazzi e bambini che gridando “Dio lo vuole” erano partiti per la Crociata; difficoltà varie avevano rallentato la loro marcia. Un giorno scoprirono di essere diventati vecchi e che Gerusalemme era lontana. Capitati tra dolci colline, fondarono un villaggio, lo chiamarono Jeruzalem e si convinsero di avere realizzato le loro aspirazioni giovanili. Erano diventati saggi. Anch’io mi sforzo di essere saggio». Emerge un’idea di letteratura come un lavoro residuale ai e sui margini…
«Scrivo cose brevi per la stessa ragione per cui non prendiamo in casa un gattino: credo che, alla nostra età, lo lasceremmo orfano a un destino incerto; anche un romanzo, se mi provassi a scriverlo, resterebbe con ogni probabilità orfano e incompiuto. Al questo punto, la mia intenzione sarebbe scrivere libri piccoli e facili che il lettore legga sorridendo, dalla prima all’ultima pagina. Lo farò, se la mia vita andrà per le lunghe. A parte il caso personale, penso che l’incontro tra letteratura e irrilevanza possa dare buoni frutti. Delle cose rilevanti si occupano già i giornali e la televisione».
Con quali scrittori ha intrattenuto un dialogo utile più che con altri?
«Da giovane leggevo molto e le cose lette hanno lasciato un deposito nella mia memoria. Ricordo frasi, versi, immagini, spesso senza ricordare a chi appartengano. Andrea Zanzotto parlava del “mutuo insegnamento di tutto a tutto”; in quello mi riconosco».
Il suo unico padrone, per pochi anni, è stato l’editore Franco Maria Ricci, morto l’anno scorso. Che tipo era?
«Lo conobbi a metà degli Anni 60 grazie a un editor della Mondadori che gli aveva fatto il mio nome per alcuni lavori di redazione. Ci incontrammo in un bar di Brera, e mentre per le strade c’era un corteo da cui si levavano i nomi di Marx e Lenin, lui mi parlava di Bodoni. Mi colpì la sua eleganza, la rosa di plastica all’occhiello; conoscendolo meglio, constatai che la cura si estendeva alle case, agli uffici, a tutto quello che rientrava nella sua sfera — oltreché alle sue edizioni—. Agostino aveva detto: “In interiore homine habitat veritas” e Lutero aveva ripreso quella frase in epoca moderna; forse per questo la sua religione dell’esteriorità mi lasciava perplesso. Oggi so che l’interiorità è spesso involuta, farraginosa. L’amore per ciò che si vede, per le belle apparenze, era in lui qualcosa di serio, di vitale, e si univa a un’etica del lavoro ben fatto».
Penso che l’incontro tra letteratura e irrilevanza possa dare buoni frutti Delle cose rilevanti si occupano già i giornali e la televisione