L’ultimo tentativo di mutare pelle
La mutazione genetica del Movimento 5 Stelle è ormai compiuta. Beppe Grillo, l’unica persona che detiene un vero potere interno, ha deciso che non si torna indietro.
La strada è segnata, bisogna solo percorrerla. Fino all’incontro con Giuseppe Conte e con una nuova identità che tenterà di tenere insieme un ambientalismo molto gradito dalla base e altre vocazioni di più difficile digeribilità come il liberalriformismo auspicato da Luigi Di Maio. È un cambio di pelle sul quale sono legittime molte ironie. Basta un clic per recuperare le dichiarazioni dei vertici contro ognuna delle decisioni e delle scelte che hanno invece abbracciato negli ultimi mesi.
I continui paragoni con la realtà che tre anni fa ottenne alle elezioni politiche il 32,7 percento dei voti cavalcando senza scrupoli un populismo selvaggio e giustizialista, ormai non reggono più. Anche l’Italia di oggi è diversa da quella del 2018. E non solo per la tragedia della pandemia. Quella formula, il vaffa e le manette, ha mostrato tutti i suoi limiti proprio con l’esperienza del governo M5S-Lega, non a caso i due partiti più veloci nel fare inversione di
La religione del vaffa abolita dall’alto, senza preavviso Con il timbro di Conte, il tentativo di avere una nuova identità
marcia abbandonando almeno in linea di principio la demagogia come unico strumento di lettura della realtà. C’era bisogno di altro, per entrambi.
Il M5S sembrava il meno attrezzato per un cambiamento così radicale. Perché avrebbe significato l’abbattimento del mito della democrazia online incarnato dalla piattaforma Rousseau, perché avrebbe comportato un inevitabile distacco o una revisione netta dei rapporti da Davide Casaleggio, erede della linea intransigente delle origini. E infine, perché qualcuno avrebbe dovuto avere la sincerità di riconoscere l’errore di aver ipnotizzato i propri sostenitori propagando teorie strampalate e promesse che non avevano alcuna possibilità di essere mantenute. I primi due punti sono già agli atti. Le scuse non arriveranno mai, come per altro capita quasi sempre.
Senza una vera presa di coscienza, cosa ben diversa da un autodafé, è lecito nutrire dubbi sulla sincerità di certe conversioni. Eppure, al momento bisogna prendere atto che un partito, di questo ormai si tratta, considerato in fase di decomposizione da chiunque, alleati di governo, addetti ai lavori e voci dall’interno, scopre ora di avere un nuovo orizzonte. Non era scontato che ciò accadesse. All’improvviso, la notizia della prossima fine del M5S è da considerarsi fortemente esagerata. In qualche strano modo, e se vogliamo con il colpo di fortuna rappresentato dall’avvento di Mario Draghi che ha azzerato il quadro politico, i Cinque Stelle scoprono di avere qualche carta da giocare. E si accorgono che persino la loro percezione nel Paese si sta modificando.
A forza di stare al governo, non risulta più strano che il M5S sia ormai diventato un architrave di quel Palazzo che voleva distruggere a ogni costo.
Ci vuole molta spregiudicatezza, per cambiare il proprio Dna. E anche una coesione che non permette deroghe o richiami al come eravamo. Proprio per questo le recenti espulsioni hanno il significato di un taglio netto, per quanto doloroso, con l’essenza del Movimento 5 Stelle che fu. Dopo, neppure l’imminente caduta del vincolo del terzo mandato sembrerà più una eresia, perché la religione del vaffa è stata abolita dall’alto, senza preavviso. Con il timbro di Conte, il nuovo passaporto permetterà al Movimento di non essere più considerato un paria europeo, ma di avere una propria identità, ancora da cercare, come dimostrano le trattative in corso per l’ingresso nel gruppo Socialista del Parlamento. Può anche sembrare un tentativo disperato, oppure una scommessa. E siccome si tratta di una mutazione decisa a tavolino, appare improbabile che possa cambiare anche gli umori e le convinzioni della base che pochi anni fa ha dato un consenso enorme al M5S. Ma per un partito che sembrava morto non è cosa da poco, avere ancora una vaga idea di futuro.