IL DELATORE ERA L’AMICO DI FAMIGLIA
C’è un momento in cui in Italia dal termine «ebrei», di per sé spesso e volentieri impiegato non precisamente in maniera neutra, si è passati a quello di «giudei», ieri come oggi offensivo, oltraggioso, sprezzante. Gaia Servadio nel suo nuovo libro intitolato, appunto, Giudei (Bompiani, pp. 342, 19) parte da quel momento per raccontare il romanzo della sua famiglia, rievocando il prima, non certo privo di ombre ma comunque abbastanza somigliante alle vite degli altri, e il dopo, per buona parte dei suoi, strada maestra verso il precipizio. Di romanzo senz’altro si tratta, l’autrice stessa lo rivendica in un’introduzione, però fortemente autobiografico, tant’è vero che qua e là succede che dalla terza persona Servadio passi alla prima, come se le vicende le prendessero la mano tanto da non permetterle più il composto distacco della semplice osservatrice, ma costringendola, invece, a svelarsi nella sua qualità di personaggio co-protagonista.
Primo merito del libro è di essere di facile lettura in quanto diviso in tanti capitoli brevi, ciascuno con l’autonomia di un piccolo racconto ma ciononostante connesso alla trama d’insieme. Secondo merito è una certa levità della narrazione che, pur non nascondendo nulla dell’immane tragedia che si abbatte su milioni, non si sofferma passo passo sui dettagli dell’orrore. C’è una bambina, la più piccola dei tanti personaggi che compaiono sulla scena di Giudei, che possiede questa levità: si chiama Priscilla, inquieta e sognatrice, ma si è tentati di pensare che il suo vero nome in realtà fosse Gaia.
PL’autrice rievoca i destini dei suoni nonni (che sono anche i nonni di Priscilla), Zaccaria Levi, famiglia marchigiana di raffinati amanti di arte, letteratura e musica, editori, mecenati ma anche imprenditori, innamorati dell’Italia e degli italiani, assimilati e non praticanti, e Rebecca Foa, molto conservatrice famiglia piemontese di fedelissimi sudditi sabaudi e devoti celebranti dei riti religiosi ebraici. Matrimonio combinato, probabilmente infelice, il che, però, non ha impedito una folta discendenza dai bei nomi shakespeariani, Ariel, Cielo, Prospero, Miranda… Nessun eroe tra loro — come ci si aspetterebbe se il libro fosse un vero romanzo — tutte persone normali che avrebbero voluto far vita normale. Non è permesso, a causa di quel fatale cambio di denominazione, da ebrei a giudei, che ne ha stravolto le esistenze. Ed ecco che assieme alle vite dei Levi e dei Foa, la grande aristocrazia ebraica italiana, il libro ripercorre anche un tratto — tra i più tragici — di storia d’Italia.
Le leggi razziali sono il punto di non ritorno che costringono Levi e Foa, fino ad allora convinti di essere italiani come tutti gli altri — e, in più, stimati e rispettati, anche se già da un po’ nel mirino dei fascisti — a convincersi, contro ogni ragionevolezza, che è tornata la funesta stagione dei pogrom. Chi scappa, chi si nasconde, chi viene tradito e chi, invece, viene salvato. Le famiglie si dividono, si sparpagliano, qualcuno sopravvive all’invivibile, qualcuno ha fortuna, altri no.
La salvezza viene spesso da chi non la si aspetta e lo stesso succede per la perdizione. Con gentile magnanimità l’autrice certo non giustifica i delatori (che hanno denunciato e mandato a morte nonna e zia) ma non infierisce: li considera, sì, infami, ma un po’ alla stregua di chi ruba per dare da mangiare — era tempo di guerra — ai figli piccoli. Un portinaio, che forse figli piccoli ne aveva, preferisce rischiare la fucilazione pur di avvisare del pericolo imminente; un amico di famiglia, per anni presenza stabile in casa, va e, per modesta ricompensa, spiffera dove si nascondono le due «giudee».