Tre anni vissuti tra i tormenti
Tre anni di tormenti, per il Movimento. La parabola grillina, tra governi molto diversi tra loro e gli slogan gridati della prima ora e adesso finiti in cantina.
«Toh, questo ha il nome del bandito», sussurrava una malalingua infilata tra i cronisti in quell’indimenticabile primo marzo 2018, giorno in cui Luigi Di Maio presentava la sua proposta di ministri per un monocolore pentastellato che avrebbe dovuto sbocciare di lì a poco ma su cui neanche il più ottimista tra
1 marzo 2018: il M5S presenta i nomi per i ministeri. Per Conte uno senza portafoglio
i grillini avrebbe mai scommesso un centesimo. Salvatore Giuliano, preside dell’Istituto Majorana di Brindisi, manco aveva fatto a tempo ad essere designato come ministro in pectore della Pubblica istruzione che qualche smanettone della base pentastellata — probabilmente avvertiva l’odore di «inciucio» che spesso si accompagna all’imminenza di una grande vittoria elettorale, che puntualmente arrivò il 4 marzo — l’aveva censito, dopo accurata ricerca su Google, tra i sostenitori della riforma della Buona scuola di Matteo Renzi. Non ce la fece, il preside Giuliano, a mimetizzarsi tra Alessandra Pesce (designata all’Agricoltura) e Paola Giannettakis (Interno), tra Armando Bartolazzi (Sanità) ed Emanuela Del Re (Esteri), poi tornati a ingrassare le fila dei carneadi in odor di grillismo, con curricula in qualche caso poi irrobustiti da posti nel sottogoverno o nei cda che contano. L’impresa, però, la fece il professor Giuseppe Conte, che quel giorno di tre anni fa — attaccato nella foto di rito all’unico che lo conosceva di persona, Alfonso Bonafede — riuscì nel buon proposito di non farsi notare, nascosto forse dalla delega tutto sommato leggera (ministro per la Pubblica amministrazione, rigorosamente senza portafoglio) per giunta nei più aeriforme dei governi, nato per finta col presupposto di non nascere mai davvero.
Tre anni esatti. Da marzo a marzo, dal 2018 al 2021. Tre anni di discese ardite e risalite, di annunci di fine precoce e nuovi miracoli, di tormenti continui, di passaggi di stato. Il consenso del M5S che passa da solido (32,7% alle Politiche del 2018) a liquido (il 17% alle Europee del 2019); e la leadership di Conte che fa il percorso opposto, gassosa nel «finto» governo Di Maio, liquida come un corso d’acqua tra Di Maio e Salvini nel vero governo gialloverde e poi sempre più solida, nell’esperienza giallorossa col Pd. Una solidità istituzionale che adesso potrebbe diventare partitica e movimentista, con quel ruolo ad hoc nel Movimento deciso ieri all’Hotel Forum, che gli consentirà di stringere i bulloni
dell’alleanza coi democratici.
In tre anni è successo tutto e il suo contrario, sull’asse M5S-Conte. E limitarsi a guardare il disegnino della traiettoria da Salvini a Zingaretti, dai gilet gialli all’europeismo spinto, dalla minaccia di impeachment al «ci affidiamo come sempre al presidente Mattarella» rischia di oscurare i passaggi intermedi. Sono stati anni bellissimi (copyright Conte) governi migliori del mondo (sempre Conte) povertà abolite (Di Maio); anni di dicotomie annunciate e poi smentite, «o noi o Renzi», «o Conte o morte», con «la terza che hai detto» — parafrasando il Quelo di Corrado Guzzanti — a dominare sempre sulle altre due. In fondo, è quello che è successo ad Alessandro Di Battista, fermo un giro per risparmiare uno dei due mandati disponibili e poi uscito dal gruppo, quando della regola dei due mandati manco si parla più: da leader vero a leader ombra e poi giù fino alla terza opzione, né l’uno né l’altro.
Nel mezzo, le liti ai piani alti tra Casaleggio e Grillo, col primo arrivato a minacciare di non pagare più spese legali per le querele del secondo quando ormai, visti i tempi, non c’era nulla di querelabile nell’eloquio del Garante. Col «vaffa» finito tra i memorabilia confinati in cantina — sommerso dalla polvere che ricopre gli slogan «No euro», «No Tav», «No Tap» e persino «No Vax» — l’ex comico ha tenuto fede al principio governista professato di fronte ai suoi nell’agosto 2019 a Marina di Bibbona, nei giorni del passaggio cruciale tra l’esecutivo con Salvini e quello col Pd, quando più d’uno tra i suoi «ragazzi» era tentato dal voto anticipato. «Se si va a votare, il Movimento è morto. L’avete capito o no?». In fondo, cambiano i tempi ma qualcosa rimane sempre dell’antica era pentastellata, che sia il 2018 o il 2021. Quella specie di effetto Albachiara che si viveva anche ieri, fuori dall’Hotel Forum in cui si discuteva del futuro «ad hoc» di Conte, e che avvolge i protagonisti del grillismo da sempre, che siano in jeans o con l’abito blu. Sembrano loro soli dentro una stanza. E tutto il mondo fuori.