UN RECOVERY PLAN ALL’INSEGNA DEL MASSIMO REALISMO
Sviluppo La scelta giusta è programmare restando fedeli alle nostre quattro principali filiere: made in Italy, creazione e manutenzione dei macchinari, enogastronomia e turismo
In varie recenti occasioni di dibattito mi è stato spesso chiesto, con polemica provocazione, come avrei impostato il lavoro di programmazione del Recovery plan. Posso sorvolare sulle provocazioni personali, quelle che mi attribuiscono una cultura di pianificazione troppo antica e superata (devo ammetterlo, ho cominciato ad esercitarmi sull’argomento all’epoca del Piano Vanoni); mentre mi sembra più importante la provocazione a non esercitare il mio antico realismo «terra terra» contro l’onda programmatica oggi trionfante, tutta tesa all’obiettivo di «fare l’Italia del 2030».
La mia risposta poggia naturalmente sulla antica convinzione che un programma di sviluppo (di resilienza o di ripresa, comunque lo si chiami) ha senso e concretezza solo se si basa non sulla volontà di realizzare traguardi mirabili, ma sul concreto sostegno dei processi socioeconomici realmente esistenti e dei vari soggetti in essi coinvolti. Per questo io sarei propenso a caricare le risorse disponibili sull’ulteriore dinamica delle quattro grandi filiere di sviluppo che hanno fin qui ottimamente funzionato: dalla variegata filiera del made in Italy alla filiera quasi monopolistica della creazione e manutenzione dei macchinari; dalla filiera enogastronomica, con cui abbiamo letteralmente cambiato i modelli di consumo di vari continenti, a quella composita filiera turistica (di élite o di bed and breakfast) con cui sono cresciuti milioni di operatori. Certo, sui mercati internazionali ci sono altri nostri settori di gran pregio (dal farmaceutico all’automotive), ma non hanno quella capacità di trascinamento e di soggettualità di massa che invece hanno le quattro filiere sopra citate.
Mi rendo conto che incardinare l’attuale pianificazione su queste quattro filiere (sui loro processi e sui relativi soggetti) possa apparire come un’opzione troppo aderente al presente e poco orientata al futuro. Capisco quindi coloro che centrano l’opera di pianificazione sul più entusiasmante traguardo di costruire «l’Italia che verrà» anche attraverso il grande sforzo europeo che si va mettendo insieme. E capisco di conseguenza la scelta, ormai quasi plebiscitaria, dei capisaldi dell’impegno prossimo venturo: digitalizzare il sistema (dai comportamenti dei singoli a quelli dell’amministrazione pubblica); provvedere a una profonda transizione ecologica del Paese (dalla difesa del paesaggio e del clima alla lotta all’inquinamento); procedere a una profonda riconversione energetica (privilegiando le fonti rinnovabili rispetto ai combustibili fossili); dare spazio alla creatività e all’innovazione (specialmente con lo sviluppo del fattore umano, della formazione, della ricerca).
Mi vergognerei come un ladro se negassi l’importanza di fondo di questi obiettivi e convengo sul fatto che essi sono legittimi e doverosi. Ma resto dell’opinione che essi sono traguardi ottimali e non processi reali; e che sono destinati a restare sul nobile piano della necessità, senza trasporsi in concreti e quotidiani comportamenti di tanti e tanti soggetti. Potremmo correre il rischio di avere più documenti che atti amministrativi, più annunci d’opinione che procedure decisionali.
E corriamo soprattutto il rischio di incorrere nelle dure regole europee di gestione del Recovery, regole che legano i progetti innovativi a precise e preliminari riforme strutturali (non si incentiva l’innovazione se non come avanzamento di una precisa trasformazione di struttura). In parole povere, non è permesso lanciarsi in creatività progettuale se essa non è incardinata in una riforma d’apparato (magari del Fisco, della Pubblica amministrazione, dei poteri locali, del codice degli appalti, ecc.). Ed è una conversione culturale radicale che ci trova più impreparati di quanto ci abbia colto la rampante pandemia.
Qualche maligno ben informato ha sollevato il sospetto che siano stati i tedeschi a darci tanti soldi, ma con il retropensiero che non avremmo saputo spenderli perché incapaci di rispettare i binari della programmazione degli interventi, della loro progressione temporale, dei relativi finanziamenti, della loro periodica rendicontazione. Sospettare è peccato, ma la risposta giusta è nell’accettare la sfida di programmare con realismo, senza aspirare a «magnifiche sorti e progressive». Restare quindi con i piedi per terra, umilmente fedeli ai nostri reali processi di fondo; e fermarsi su poche e semplici riforme aperte a una concreta e non immaginaria innovazione. Il realismo tedesco non è ammirato dalle nostre parti, ma è un accettabile parametro su cui tentare una nostra concreta modernizzazione.
Alternative
Sui mercati ci sono altri nostri settori di gran pregio, ma non hanno la stessa capacità di trascinamento