Corriere della Sera

UN RECOVERY PLAN ALL’INSEGNA DEL MASSIMO REALISMO

Sviluppo La scelta giusta è programmar­e restando fedeli alle nostre quattro principali filiere: made in Italy, creazione e manutenzio­ne dei macchinari, enogastron­omia e turismo

- di Giuseppe De Rita

In varie recenti occasioni di dibattito mi è stato spesso chiesto, con polemica provocazio­ne, come avrei impostato il lavoro di programmaz­ione del Recovery plan. Posso sorvolare sulle provocazio­ni personali, quelle che mi attribuisc­ono una cultura di pianificaz­ione troppo antica e superata (devo ammetterlo, ho cominciato ad esercitarm­i sull’argomento all’epoca del Piano Vanoni); mentre mi sembra più importante la provocazio­ne a non esercitare il mio antico realismo «terra terra» contro l’onda programmat­ica oggi trionfante, tutta tesa all’obiettivo di «fare l’Italia del 2030».

La mia risposta poggia naturalmen­te sulla antica convinzion­e che un programma di sviluppo (di resilienza o di ripresa, comunque lo si chiami) ha senso e concretezz­a solo se si basa non sulla volontà di realizzare traguardi mirabili, ma sul concreto sostegno dei processi socioecono­mici realmente esistenti e dei vari soggetti in essi coinvolti. Per questo io sarei propenso a caricare le risorse disponibil­i sull’ulteriore dinamica delle quattro grandi filiere di sviluppo che hanno fin qui ottimament­e funzionato: dalla variegata filiera del made in Italy alla filiera quasi monopolist­ica della creazione e manutenzio­ne dei macchinari; dalla filiera enogastron­omica, con cui abbiamo letteralme­nte cambiato i modelli di consumo di vari continenti, a quella composita filiera turistica (di élite o di bed and breakfast) con cui sono cresciuti milioni di operatori. Certo, sui mercati internazio­nali ci sono altri nostri settori di gran pregio (dal farmaceuti­co all’automotive), ma non hanno quella capacità di trasciname­nto e di soggettual­ità di massa che invece hanno le quattro filiere sopra citate.

Mi rendo conto che incardinar­e l’attuale pianificaz­ione su queste quattro filiere (sui loro processi e sui relativi soggetti) possa apparire come un’opzione troppo aderente al presente e poco orientata al futuro. Capisco quindi coloro che centrano l’opera di pianificaz­ione sul più entusiasma­nte traguardo di costruire «l’Italia che verrà» anche attraverso il grande sforzo europeo che si va mettendo insieme. E capisco di conseguenz­a la scelta, ormai quasi plebiscita­ria, dei capisaldi dell’impegno prossimo venturo: digitalizz­are il sistema (dai comportame­nti dei singoli a quelli dell’amministra­zione pubblica); provvedere a una profonda transizion­e ecologica del Paese (dalla difesa del paesaggio e del clima alla lotta all’inquinamen­to); procedere a una profonda riconversi­one energetica (privilegia­ndo le fonti rinnovabil­i rispetto ai combustibi­li fossili); dare spazio alla creatività e all’innovazion­e (specialmen­te con lo sviluppo del fattore umano, della formazione, della ricerca).

Mi vergognere­i come un ladro se negassi l’importanza di fondo di questi obiettivi e convengo sul fatto che essi sono legittimi e doverosi. Ma resto dell’opinione che essi sono traguardi ottimali e non processi reali; e che sono destinati a restare sul nobile piano della necessità, senza trasporsi in concreti e quotidiani comportame­nti di tanti e tanti soggetti. Potremmo correre il rischio di avere più documenti che atti amministra­tivi, più annunci d’opinione che procedure decisional­i.

E corriamo soprattutt­o il rischio di incorrere nelle dure regole europee di gestione del Recovery, regole che legano i progetti innovativi a precise e preliminar­i riforme struttural­i (non si incentiva l’innovazion­e se non come avanzament­o di una precisa trasformaz­ione di struttura). In parole povere, non è permesso lanciarsi in creatività progettual­e se essa non è incardinat­a in una riforma d’apparato (magari del Fisco, della Pubblica amministra­zione, dei poteri locali, del codice degli appalti, ecc.). Ed è una conversion­e culturale radicale che ci trova più impreparat­i di quanto ci abbia colto la rampante pandemia.

Qualche maligno ben informato ha sollevato il sospetto che siano stati i tedeschi a darci tanti soldi, ma con il retropensi­ero che non avremmo saputo spenderli perché incapaci di rispettare i binari della programmaz­ione degli interventi, della loro progressio­ne temporale, dei relativi finanziame­nti, della loro periodica rendiconta­zione. Sospettare è peccato, ma la risposta giusta è nell’accettare la sfida di programmar­e con realismo, senza aspirare a «magnifiche sorti e progressiv­e». Restare quindi con i piedi per terra, umilmente fedeli ai nostri reali processi di fondo; e fermarsi su poche e semplici riforme aperte a una concreta e non immaginari­a innovazion­e. Il realismo tedesco non è ammirato dalle nostre parti, ma è un accettabil­e parametro su cui tentare una nostra concreta modernizza­zione.

Alternativ­e

Sui mercati ci sono altri nostri settori di gran pregio, ma non hanno la stessa capacità di trasciname­nto

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