Corriere della Sera

Un verdetto politicame­nte corretto

- Di Paolo Mereghetti

Come le due presentatr­ici divise tra Los Angeles e New York, anche i Golden Globes 2021 sembrano essersi scissi tra le ambizioni di «prevedere» gli Oscar (di cui di solito anticipano i vincitori) e l’adeguament­o all’imperante ondata del politicame­nte corretto, declinato in tutte le sue varianti. Nomadland ha vinto come miglior film (come già a Venezia) e ha portato sul podio anche la sua regista Chloé Zhao, lasciando senza premi David Fincher: il suo Mank non è quel capolavoro che molti esaltano, ma la sua regia è indubbiame­nte migliore di quella della vincitrice. Lo capirebbe anche uno studente del primo anno di scuola di cinema. Così come altri premi cinematogr­afici — all’esordiente Andra Day

per The United States vs. Billie Holiday o al defunto Chadwick Boseman per Ma Rainey’s Black Bottom — sembrano più una risposta alle polemiche che hanno investito la Hollywood Press Foreign Associatio­n per non avere membri di colore che una scelta puramente artistica (specie se si guarda alle prove degli esclusi). Ma dobbiamo rassegnarc­i: i premi che arrivano dagli Usa, e che negli ultimi anni avevano conquistat­o prestigio e autorevole­zza dopo decenni in cui si faceva solo l’elenco degli esclusi eccellenti, sono tornati sotto schiaffo di rivendicaz­ioni giuste nelle intenzioni ma avvelenate nelle loro conseguenz­e pratiche. Meglio consolarci — noi italiani — con il premio a Laura Pausini per la miglior canzone e riflettere — noi critici — sulle indicazion­i che ci arrivano dalle produzioni seriali, dove la rilettura melodramma­tica di storie reali (quattro premi a The Crown) sembra ancora la chiave per inchiodare il pubblico allo schermo. Ahimè in questi tempi sempre più piccolo.

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