Un verdetto politicamente corretto
Come le due presentatrici divise tra Los Angeles e New York, anche i Golden Globes 2021 sembrano essersi scissi tra le ambizioni di «prevedere» gli Oscar (di cui di solito anticipano i vincitori) e l’adeguamento all’imperante ondata del politicamente corretto, declinato in tutte le sue varianti. Nomadland ha vinto come miglior film (come già a Venezia) e ha portato sul podio anche la sua regista Chloé Zhao, lasciando senza premi David Fincher: il suo Mank non è quel capolavoro che molti esaltano, ma la sua regia è indubbiamente migliore di quella della vincitrice. Lo capirebbe anche uno studente del primo anno di scuola di cinema. Così come altri premi cinematografici — all’esordiente Andra Day
per The United States vs. Billie Holiday o al defunto Chadwick Boseman per Ma Rainey’s Black Bottom — sembrano più una risposta alle polemiche che hanno investito la Hollywood Press Foreign Association per non avere membri di colore che una scelta puramente artistica (specie se si guarda alle prove degli esclusi). Ma dobbiamo rassegnarci: i premi che arrivano dagli Usa, e che negli ultimi anni avevano conquistato prestigio e autorevolezza dopo decenni in cui si faceva solo l’elenco degli esclusi eccellenti, sono tornati sotto schiaffo di rivendicazioni giuste nelle intenzioni ma avvelenate nelle loro conseguenze pratiche. Meglio consolarci — noi italiani — con il premio a Laura Pausini per la miglior canzone e riflettere — noi critici — sulle indicazioni che ci arrivano dalle produzioni seriali, dove la rilettura melodrammatica di storie reali (quattro premi a The Crown) sembra ancora la chiave per inchiodare il pubblico allo schermo. Ahimè in questi tempi sempre più piccolo.