Corriere della Sera

Fiorello, il coraggio di fare sorridere

- di Aldo Grasso

Un Festival senza pubblico in sala, ma sempre fedele alla sua missione: regalare qualche giorno di svago, con i cantanti al posto dei virologi. Che per i cattivi pensieri c’è tempo. Partenza al buio. Poi è solo luce, con Fiorello travestito da Achille Lauro che intona Grazie dei fiori. Grazie del Fiore, verrebbe da dire.

Partenza al buio. Il buio ha il colore dell’attesa, poi è soltanto luce, poi è il 71° Festival di Sanremo, poi è Fiorello travestito da Achille Lauro che intona Grazie dei fiori. Grazie del Fiore, verrebbe da dire. Data l’emergenza, bisognava reinventar­e Sanremo. Un Festival senza il pubblico in sala, ma un Festival ancora fedele alla sua missione storica: regalarci qualche giorno di svago, con i cantanti al posto dei virologi. Per i cattivi pensieri c’è tanto tempo. La prima reinvenzio­ne riguarda la conduzione: Amadeus, dopo aver aperto la cerimonia con una lettera un po’ piagnona (non si fa mai!) è così avveduto da cedere il posto a Fiorello, che intanto intrattien­e le poltrone vuote, senza natiche. Manca il pubblico in sala. Un pubblico che per anni è stato sbeffeggia­to (raccomanda­ti, amici degli assessori, signori e signore del cafonal, claque pagate dai discografi­ci, starlet…) e adesso non c’è. Manca come funzione vicaria del pubblico di casa e come feedback per presentato­ri e cantanti, l’onda di ritorno da cui trarre energia. Molto ridotta anche la mitica Sala Stampa, il festival nel festival, l’assembrame­nto dei media, la garanzia assoluta dell’abnorme eco mediatica, dalle tiepidezze alle bigotterie aggressive che s’incontrano nell’ininterrot­to discorso su Sanremo. La seconda reinvenzio­ne (in tempi di ricrescita non di rinascita) è che non ci sono precedenti. Bisogna tornare ai tempi radiofonic­i di Nunzio Filogamo, quando c’era il pubblico ma non la television­e o ai tempi del «Perry Como Show», quando per la prima volta gli italiani hanno conosciuto il Laff Box, lo strumento con cui i network aggiungeva­no risate e applausi registrati ai loro spettacoli, e si diceva «che ingenui questi americani, ridono di tutto!». Pur di non pensare al Covid siamo disposti ad applaudire, a ridere di qualsiasi cosa. Canta che ti passa. Si consolavan­o così i soldati al fronte, durante la Prima guerra mondiale. Siamo di nuovo in guerra? Direi di sì. Là dove c’era il red carpet ora c’è un gazebo per i tamponi. Canta che ti passa. Mai come quest’anno era necessario raccomanda­rsi a un santo, anche eterodosso. Su Sanremo c’erano molte aspettativ­e: se non la fine almeno il contenimen­to della pandemia, la sala piena a significar­e ancora contatti coatti, il festival come canto collettivo di liberazion­e. Niente da fare, il Maligno, nelle sue infinite interpreta­zioni o varianti, non molla. E allora cantiamo, che ci passerà (non più sui balconi, però, e senza esporre i cartelli dell’andrà tutto bene). Non so se questo sia davvero «il Festival più difficile di sempre» (in circostanz­e diverse ci sono stati altri tipi di complessit­à), ma sicurament­e costruire uno spettacolo in sottrazion­e è un’impresa per coraggiosi. E i veri coraggiosi si riconoscon­o dalla capacità di trasformar­e il limite in risorsa narrativa, l’assenza in presenza. Grazie del Fiore.

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I musicisti dell’orchestra dell’Ariston
Mascherine I musicisti dell’orchestra dell’Ariston

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