Alta fedeltà
La morte di Claudio Coccoluto è stata la notizia più letta del giorno, ma la notizia più grande è stata la sua vita. Specie per chi, fino a ieri, aveva solo una vaga idea di chi fosse. Coccoluto era un disc jockey, forse il più bravo del mondo, certo uno dei più ricercati, da Londra a New York. Però non è stato il mestiere a rendere la sua storia così esemplare, quanto il suo modo di interpretarlo. Coccoluto ha iniziato a mettere dischi in vinile nel negozio di elettrodomestici del padre sul lungomare di Gaeta. Aveva tredici anni, e per i quarantasei successivi non ha fatto altro. Non esiste sirena mediatica che non lo abbia tentato, dalla radio alla televisione. Lui ha resistito a tutte per non correre il rischio di snaturarsi, ma principalmente per rispettare la sua vocazione. Gli artisti rispondono alle chiamate interiori, come le persone di fede. E lui a tredici anni, logorando puntine di giradischi nel negozio di famiglia, aveva capito — anzi, sentito — di essere nato per fare proprio quella cosa lì. Manipolare dischi con eleganza per assembrare corpi danzanti, esercizio oggi scellerato, benché apprezzatissimo fin dai tempi delle Baccanti.
Che uomo fortunato. Tutti abbiamo un talento, ma non tutti riusciamo subito a capire qual è. Spesso ci mettiamo la vita intera, e a volte non basta. Lui aveva una traccia nel cuore, e l’ha riconosciuta e seguita. Dicendo tanti no al mondo per continuare a dire di sì a sé stesso.