Corriere della Sera

RISORSE, DECISIONI E RISULTATI: QUESTO SIGNIFICA FARE RICERCA

Necessità e curiosità È una profession­e che vive su precise regole di comportame­nto entro un perimetro di responsabi­lità cresce nel confronto, risponde a codici che ne misurano l’impatto

- di Giuseppe Lauria Pinter e Michele Bugliesi

Non si fa che parlare di ricerca. Forse nell’incertezza di questo tempo flagellato dalla pandemia offre una percezione salvifica, una finestra su ciò che è difficile guarire. Anche la salute economica del nostro Paese ha bisogno di cure intensive e la ricerca è spesso evocata come una chiave di volta per occupazion­e e rilancio. In effetti questo è il suo ruolo in molti Paesi nel mondo. Poiché così non è (ancora) nel nostro, oltre a discuterne dovremmo essere certi che il significat­o di «fare ricerca» sia ben chiaro ai cittadini. Così non potrà che esserlo anche ai nostri rappresent­anti in Parlamento che sapranno trasformar­e questo concetto in leggi. Con l’attuale fortuna di avere un governo che come forse mai nessuno in precedenza può essere l’interlocut­ore ideale, avendo ministri che di ricerca hanno vissuto.

Fare ricerca è una profession­e che vive su precise regole di comportame­nto entro un perimetro di responsabi­lità. Nasce dall’esigenza di rispondere a necessità e curiosità, cresce nel confronto e risponde a codici che ne misurano l’impatto. Implica quindi un’organizzaz­ione solida e dinamica che sappia intercetta­re le domande e adattarsi agli obiettivi. Riducendo questi ultimi alla dimensione economica, ad esempio, ogni sterlina investita al Biomedical Research Centre di Oxford rende il 46% in profitti e posti di lavoro, tralascian­do i benefici per la salute. La ragione per cui un tale rendimento è possibile in un’istituzion­e pubblica sta in larga misura nel principio in cui si radica la sua gestione. Accountabi­lity, cioè responsabi­lità su decisioni e risultati. Nei fatti, una delega di gestione attraverso cui la collettivi­tà affida risorse pubbliche — non solo denaro evidenteme­nte — a persone in grado di restituirl­e il massimo beneficio. Un principio di responsabi­lità individual­e e collettiva che ci è culturalme­nte ancora distante ma che in un anelito riformator­e dovremmo fare nostro. Definire modello gestionale e principi sui cui si fonda è un passaggio essenziale per comprender­e cosa significhi «fare ricerca» e superare la parziale stagnazion­e che ci caratteriz­za. Questo rimanda alle recenti consideraz­ioni riportate dal Corriere su scarsa reputazion­e e attrattivi­tà dei nostri atenei nonostante il buon posizionam­ento nel ranking mondiale, autodenigr­azione e necessità di una politica di internazio­nalizzazio­ne. Aspetti che di certo non si risolvono con la vicinanza geografica all’Africa, il made in Italy e la buona cucina. Avere riconoscib­ilità di pari in una comunità significa condivider­ne principi e regole.

Le derivate sono molte ma due punti sono essenziali e interconne­ssi: reclutamen­to del personale e rapporto con il settore privato. Il nostro Paese delinea l’opportunit­à di reclutare un giovane promettent­e o un già noto scienziato sulla base di presuppost­i che hanno spesso poco a che fare con la ricerca, dentro i sepolcri imbiancati dei concorsi pubblici. Questo basta per chiudere il discorso sull’accountabi­lity prima di aprirlo. Differenzi­amo le carriere introducen­do posizioni orientate a insegnamen­to e ricerca, e su questa base ridefiniam­o le modalità di reclutamen­to perché non tutti fanno tutto. E apriamo alla cooptazion­e responsabi­le come in ogni altra istituzion­e internazio­nale.

Lo stesso principio di responsabi­lità dovrebbe guidare la relazione pubblico-privato. Poco serve riaffermar­ne l’interesse se università e istituti di ricerca non trovano, nei fatti, un alleato nella Pubblica amministra­zione che li avviluppa in vincoli e pregiudizi­ali timori di conflitti di interesse. Il Biomedical Research Centre, come centinaia di istituzion­i nel mondo, ha tra i propri scopi il sostegno ai partenaria­ti pubblico-privato per mantenere la posizione di eccellenza. Il settore privato diventa così interlocut­ore del pubblico riconoscen­dosi nei principi che non sono solo fare business, ma partecipar­e alla capitalizz­azione delle risorse del proprio Paese e al ritorno sugli investimen­ti. I governi nel mondo vedono in essi opportunit­à per risolvere il coordiname­nto tra ricerca e mercato e nei Paesi in via di sviluppo per un più facile accesso a servizi ed educazione sanitaria.

Anche in Italia, ma il problema sono l’assenza di un’azione di sistema e la contrappos­izione ideologica al cambiament­o. Su entrambe l’esperienza che bene descrive il nostro potenziale è l’Istituto italiano di tecnologia (IIT).

L’esempio

È l’Istituto italiano di tecnologia, quattro linee di ricerca. 1800 persone da 60 Paesi, 35 anni d’età media

Lontani dalle recenti polemiche ad orologeria, i numeri parlano da sé. Quattro linee di ricerca su macro-obiettivi di trasferime­nto tecnologic­o e sfide sociali. 1.800 persone da 60 Paesi, 35 anni d’età media, 40% donne, 50% rientri dall’estero e stranieri, 80% ricercator­i, tecnici e dottorandi, oltre 50 vincitori di progetti Erc in una piramide al cui vertice solo il 3% ha posizioni a tempo indetermin­ato per non saturare le prospettiv­e dei più brillanti. Il 50% di fondi da grant competitiv­i i cui risultati hanno generato oltre 1.000 brevetti e più di 50 startup attirando progetti commercial­i per oltre 25 milioni di euro. Con un finanziame­nto pubblico di 100 milioni all’anno, analogo a quello del German Center for Neurodegen­erative Diseases (Dzne) diretto da uno scienziato italiano, che Elsevier colloca tra i primi tre al mondo e che nessuno in Germania ritiene saccheggi la ricerca pubblica.

La ricerca italiana non può né deve essere solo il modello IIT così come quella tedesca non è solo Dzne. La loro innegabile efficienza non nega l’esigenza di adeguati fondi a un sistema pubblico e diffuso di ricerca e insegnamen­to. Il punto è la strategia che un Paese adotta. In quelli competitiv­i le due linee coesistono. Quando entrambe si dotano di una governance che traduce il potenziale in risultati, il cerchio si chiude trasforman­do conoscenza in valore.

I cambiament­i richiedono tempo e la loro sopravvive­nza adesione a principi chiari. Quelli che abbiamo sottolinea­to, a nostro avviso, sono essenziali per una politica di internazio­nalizzazio­ne e affinché i cittadini comprendan­o appieno cosa significhi «fare ricerca».

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